Il mondo nasce da un rifiuto Niente cambia, per l’eternità
Nei primi decenni del Novecento il sociologo-etnologo Lévy-Bruhl tende invece a sostenere la tesi che nella «mentalità primitiva» quel Rifiuto è assente o quasi. Autori come Bergson, Durkheim, Mauss mostrano in molti modi la insostenibilità di questa tesi. E infatti come sarebbe possibile, per l’uomo, compiere il gesto più semplice, ad esempio bere dell’acqua, se la «mentalità primitiva» credesse che l’acqua sia pietra (o fuoco, aria)? Anche il primitivo può vivere perché si rifiuta di crederlo.
Tale Rifiuto sta all’«origine» e alle «fondamenta» della vita umana, la «domina» e la «comanda»: tutte parole, queste, che corrispondono all’antica parola greca arché, che viene tradotta anche con «principio». Già per la filosofia greca il Rifiuto che qualcosa sia altro da sé è l’arché di tutta la conoscenza. Ma la filosofia intende il Rifiuto originario in un modo radicalmente nuovo. Prima di essa il Rifiuto è un voler negare che il giorno sia notte, l’acqua pietra, e così via. La filosofia sostiene che queste negazioni non sono semplicemente un «volere», ma un sapere assolutamente non smentibile: il sapere che sta al fondamento di ogni altro sapere e di ogni agire e che quindi è la verità originaria. Aristotele dice appunto che tutte queste negazioni sono espresse da un’unica arché, che è «la più salda» di tutte le conoscenze. Più tardi questa arché sarà chiamata «principio di non contraddizione».
Più tardi ancora, tuttavia, varie forme del pensiero filosofico riterranno che il tentativo di separare questo principio dalla volontà, facendone la suprema «verità» incontrovertibile, è destinato a fallire. Ad esempio lo ritengono Nietzsche e Dostoevskij, e prima di loro Giacomo Leopardi e (secondo alcuni) Hegel. Lo ritiene gran parte della filosofia contemporanea. Per Popper tale principio è sì il fondamento dell’atteggiamento «razionale»: senza di esso crollerebbe l’intero edificio della scienza; sennonché, per lui, ciò che fa scegliere tale atteggiamento è una «fede irrazionale»; e quindi è innanzitutto il principio di non contraddizione ad esser dominato e guidato da una volontà («fede») senza verità. Al di sotto della propria maschera tale principio è in effetti, nelle sue diverse configurazioni e formulazioni storiche, un grande dogma, è appunto la volontà che le cose stiano nel modo da esso prescritto. (Anche la filosofia ha sostanzialmente trascurato l’unico grande tentativo, compiuto da Aristotele, di sottrarre quel principio all’arbitrio della volontà). Tale principio serve certamente a vivere, rileva Nietzsche, ma che una cosa serva e sia utile non significa che essa sia vera.
Ma tutta la vicenda che abbiamo sin qui sommariamente richiamata — la storia cioè del Rifiuto originario — copre e nasconde qualcosa di essenzialmente più profondo e decisivo.
Da un lato copre e nasconde il Rifiuto autentico, ossia l’autentica negazione che le cose siano altro da ciò che esse sono: il Rifiuto che dunque non è né volontà, né il fallito tentativo filosofico di liberare il Rifiuto dalla volontà. Dall’altro lato quella vicenda copre e nasconde il sapere più alto. Esso dice che proprio perché nessuna cosa può essere altro da ciò che essa è (proprio perché ogni cosa è se stessa), proprio per questo ogni cosa è eterna. Ogni cosa — dunque ogni stato di cose, ogni stato del mondo e dell’anima, ogni situazione ed evento, e il contenuto di ogni istante del tempo.
La teoria della relatività afferma sì che ogni stato del mondo (ossia del cronotopo quadridimensionale) è eterno, ma non lo afferma perché ogni cosa non può essere altro da sé: lo afferma invece sulla base della logica scientifica, che è ipotetica, e quindi controvertibile, falsificabile. Anche la teoria della relatività appartiene alla vicenda che copre e nasconde sia il Rifiuto autentico, sia l’Eternità (anch’essa da intendere autenticamente, cioè in senso essenzialmente diverso da quello che le compete lungo tale vicenda).
Ci si è rivolti da tempo, e procedendo da prospettive diverse, ai miei scritti, che indicano il senso autentico del Rifiuto e dell’Eternità come un dito indica la Luna. Restando in debito, verso molti miei critici, di una risposta adeguata alle loro osservazioni, mi limito qui a richiamare alcuni degli interventi più recenti. Suggestive e ricchissime le indagini contenute nel sesto tomo di Filosofia e idealismo di Gennaro Sasso (Bibliopolis, 2012). Che termina il suo libro con uno struggente «Congedo» dai suoi lettori. Vorrei invitare Sasso a rimuoverlo, quel congedo, a non restargli fedele, innanzitutto perché egli ha ancora molto da dire, e poi anche perché possa continuare il nostro colloquio — che generosamente, anche in queste sue pagine, considera importante per lo sviluppo delle sue ricerche. Egli sa bene che cosa intendo quando parlo del senso autentico del Rifiuto e dell’Eternità.
Lo sa bene, e sostanzialmente lo condivide, anche Leonardo Messinese, che, dopo altri due libri recentemente dedicati ai miei scritti, pubblica ora Stanze della metafisica. Heidegger, Löwith, Carlini, Bontadini, Severino (Morcelliana, 2013) e Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia (Dedalo, 2013). Messinese è un pensatore, e sacerdote, che tenta acutamente e coraggiosamente di porre la Luna, indicata dal mio dito, alla base di ogni sapienza. Un tentativo compiuto anche da Francesco Totaro nel suo importante volume Assoluto e relativo. L’essere e il suo accadere per noi (Vita e Pensiero, 2013). Molto interessante e ricco di spunti anche il modo in cui Nello Barile, nel suo Iperparmenide. Scienza, cultura e comunicazione. Oltre il postmoderno (Mimesis, 2012) si rivolge alla Luna e al mio dito.
Sta uscendo in questi giorni presso l’Editrice Laterza L’uso giuridico della natura, di Natalino Irti, dove egli riprende il nostro pluridecennale colloquio. Con un agio maggiore di quello che qui mi è consentito prenderò in considerazione queste sue pagine, come al solito di grande apertura e penetrazione, in un altro mio intervento. Qui mi limito a ringraziare di cuore Irti per avermi generosamente dedicato il suo libro. Già la dedica dice molto sul senso del nostro colloquio: «A Emanuele Severino nella concordia discors del pensiero». Mi sembra che la concordia sia destinata a crescere.
Carlo Sini scrive invece che, sì, io lo costringo ad «arrendersi» (perché lo colgo in contraddizione), ma che egli può replicare dicendo: «Sì, mi contraddico, e allora?!» (La verità è un’avventura, Gruppo Abele, 2013). Allora, rispondo, se non gli importa contraddirsi, non gli importa che la verità non sia un’avventura e nemmeno che ogni affermazione contenuta in questo e negli altri suoi libri sia la negazione di ciò che essa afferma. Sì che ad esempio, quando egli scrive che noi «siamo quel che abbiamo e che per il fatto stesso di averlo siamo destinati a perderlo», egli è disposto a contraddirsi e a riconoscere che noi non siamo quel che abbiamo e non siamo destinati a perderlo. Certo, se si ha presente (come mi sembra che accada a Sini e a tanti altri) quella forma dogmatica dove il «principio di non contraddizione» è la semplice volontà che il mondo non sia contraddittorio, allora — se la cosa serve, se è vantaggiosa, se rende vincenti — ci si può certo disinteressare del proprio contraddirsi. A uno che gli aveva fatto notare che stava contraddicendosi, Stalin rispose appunto: «Sì, compagno, mi contraddico, e allora?!».
Raffinato e penetrante come gli altri scritti di Alessandro Carrera, anche La consistenza della luce. Il pensiero della natura da Goethe a Calvino (Feltrinelli, 2010). Scrive Carrera che il suo saggio fa parte di una trilogia incominciata con La consistenza del passato:Heidegger Nietzsche Severino (Medusa, 2007), dove si esamina, dopo Heidegger e Nietzsche, «la radicale confutazione, da parte di Severino, di ogni ipotesi heideggeriana, nietzscheana o altrui, in base alla quale il passato sparirebbe nel non essere o non potrebbe sopravvivere se non manipolato dal presente e per i fini del presente». Sì, la consistenza del passato è implicata dall’Eternità di ogni cosa. Non nel senso che questa luce che viene dalla finestra debba esistere in ogni tempo, ma nel senso che il fluire del tempo non porta via con sé, nel nulla, questa luce, che invece è, eterna — e che, sì, ora è già scomparsa, ed è un passato, ma come ogni altra cosa è destinata a ritornare.
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