“Io, espulso dall’Italia dopo trent’anni ma ormai non so più nemmeno l’arabo”
BARI — «Senato’, m’hanno detto che mi riportano nel mio paese. Benissimo, allora fatemi uscire da qui. Perché io sto già nel mio paese». Fuori diluvia, eppure è estate. Ma il cortocircuito di Cherif, l’italiano clandestino, è un ossimoro ancora più efficace. Cherif ha poco più di cinquant’anni. Da trenta vive in Italia. Ha tre figli nati a Pomezia, dove da sempre lavora come carrozziere: uno è maggiorenne con passaporto e cittadinanza italiana, gli altri due aspettano i documenti al compimenti dei 18 anni, «come El Sharawy e Balotelli, ha presente?». Parla con una marcata cadenza romana: «
Me portano li giornali in arabo. E chi lo sa l’arabo, senato’? ». Cherif da qualche settimana è rinchiuso nel Cie di Bari, in attesa di espulsione verso il «suo» paese, l’Algeria. Dopo cinque anni in carcere per una storia di droga, il giudice di sorveglianza lo ha bollato come “pericoloso”, ritirandogli il permesso di soggiorno. «Ero a casa mia, con mia moglie e i ragazzi. Sono venuti i carabinieri e m’hanno detto, devi tornare in Algeria. Ma che ci vado a fare? Io ci manco da una vita. Ho sbagliato, questo sì, ho pagato ma non cacciatemi: io sono italiano ».
Questo signore, la sua tuta di acetato blu, le ciabatte di plastica «è la prova del paradosso e della pericolosità che queste strutture possono produrre» spiega Luigi Manconi, senatore del Pd e presidente della commissione Diritti Umani di Palazzo Madama che sabato ha voluto visitare il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Bari. Non è un caso che lui (insieme con le sue due assistenti, Valentina Calderone e Valentina Brinis e la funzionaria del Senato Vitaliana Curigliano) abbia scelto proprio questo posto per cominciare un viaggio nei Cie italiani: l’International
Herald Tribune e il Die Spiegel nelle scorse settimane avevano denunciato le condizioni «inumane» dei centri, citando Bari tra i casi più eclatanti. «Casi raccapriccianti che non assicurano agli immigrati una necessaria assistenza e il pieno rispetto della loro dignità» aveva scritto il perito del tribunale di Bari un anno fa, costringendo la Prefettura a effettuare nuove opere all’interno della struttura. Alcuni lavori sono conclusi. Altri partiranno a breve. L’ingegnere arriverà presto a controllare lo stato dell’arte in attesa — dopo la class action presentata dall’avvocato Luigi Paccione — che il tribunale civile (ma c’è anche un’inchiesta della Procura) si esprima sull’eventuale chiusura della struttura.
«Ora le condizioni sono molto migliorate», giurano dalla Prefettura. La capienza è stata ridotta, da 196 a 112. In questi giorni i migranti erano 106, in prevalenza algerini, marocchini, tunisini.
Qualche nigeriano. Nessuna donna. Da qualche mese c’è una nuova cooperativa che gestisce il centro: psicologi, assistenti sociali, informazione legale. I corridoi sono tirati a lucido, in occasione della visita. Le stanze meno, con le brande sgarrupate e armadi e comodini in cemento armato. «Per evitare che si facciano male» dicono. Ogni mese si verificano almeno due atti di autolesionismo. Gli schizzi di sangue sul muro, e le cronache degli anni scorsi, raccontano di piccole risse e vecchie rivolte. Recentemente un ragazzo georgiano ha provato a scappare. È caduto, hanno ricostruito, e si è fratturato tutto. Lo hanno curato e rimandato a casa. Uno su tre qui dentro fa uso di psicofarmaci. In una delle stanze, a pochi metri dai tappeti e due disegni che dovrebbero fare da moschea del braccio numero cinque, c’è un cappio esposto. Dicono che non sia un simbolo. Ma un’aspirazione.
«Dopo il carcere pensavo di tornare libero: poi mi hanno portato qui. Ma io che ci sto a fare qui?» racconta un algerino che ha vissuto anni e anni a Pistoia. Lamenta la schizofrenia di tutti coloro che vivono questi posti. Una schizofrenia anche lessicale: per lo Stato sono «ospiti» e da tutti gli altri invece «trattenuti» o «detenuti». Non sanno perché entrano e non sanno quando usciranno. Vivono tra le sbarre ma usano i telefonini, non ci sono guardie carcerarie ma le porte quando si chiudono a chiave fanno le stesso rumore delle prigioni. «Si percepisce chiaro — dice Manconi — quel senso di tensione, tra i ragazzi, che soltanto chi ha un’esperienza delle carceri conosce. Ma in un posto come questo ci sono delle condizioni, se possibile, ancora più terribili ». La noia, l’inattività. A Bari c’è un campo di calcio dove possono andare dieci per volta una volta alla settimana. Un televisore per ogni blocco. E basta. «Basterebbe portare giornali italiani, visto che circolano solo quelli in arabo e l’arabo qui dentro lo parlano pochissimo. Creare una biblioteca o fare entrare le associazioni per attività ludiche. Serve dare un senso alle giornate di queste persone». Manconi chiede due cose subito: «Più informazione legale: molti qui sono trattenuti illegalmente perché non c’è stata una verifica preventiva della legittimità del loro status. E maggiore attenzione ad alcuni casi sanitari». Un ragazzo ha raccontato di essere a letto da una settimana, per problemi alla schiena. Sopra di lui un murales domandava: «Dove va il mio destino?».
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