Vestiti puliti per una moda a misura di essere umano

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A più di un mese di distanza dalla tragedia che ha risvegliato le sopite attenzioni internazionali nei confronti di un problema di cui ancora troppo poco si sente parlare ci chiediamo: quanto dovremmo aspettare perché i diritti fondamentali dei lavoratori siano, prima ancora che rispettati, riconosciuti? Dopo più di un secolo dalla nascita delle prime Trade Unions in Inghilterra il percorso appare ancora lungo e tortuoso. Limitarsi a condannare i responsabili di simili catastrofi, benché doveroso, sarebbe troppo facile, inefficace e limitato a un provvedimento circoscritto che non può dare risultati durevoli e significativi. Non possiamo accettare che si parli di diritti umani solamente quando eventi come quello recente ci costringono a interrogarci sul “prezzo del made in Bangladesh” (o in qualsiasi altro Paese), dove nemmeno gli standard minimi delle condizioni lavorative vengono rispettati.

L’azione di sensibilizzazione e di informazione – anche attraverso filmati d’animazione – dev’essere rivolta prima di tutto ai consumatori, ma non solo. Occorre coinvolgere anche tutti quei portatori di interesse che sono protagonisti attivi della catena produzione-distribuzione-vendita. E proprio a questo si dedica dal 1989 la Clean Clothes Campaign(CCC), promuovendo iniziative volte al miglioramento delle condizioni dei lavoratori delle fabbriche di vestiti e di abbigliamento sportivo. La Campagna, che in Italia ha risonanza grazie al Centro Nuovo Modello di Sviluppo, preme perché i diritti fondamentali dei lavoratori siano rispettati, favorendo azioni di mobilitazione dei consumatori, sostenendo la lobbying nei confronti delle aziende e dei governi e offrendo sostegno diretto agli operai del tessile nel richiedere un miglioramento delle condizioni lavorative. La Campagna Abiti Puliti, la cui segreteria si trova ad Amsterdam, è una “coalizione” di organizzazioni in 15 Paesi europei, che conta tra i suoi membri sindacati e Ong, a coprire un ampio spettro di prospettive e di interessi, quali i diritti per le donne, la tutela dei consumatori e la riduzione della povertà. Alla base, una partnership trasversale composta da più di 200 soggetti operanti anche e soprattutto in quei Paesi in cui viene prodotta la maggior parte dei capi d’abbigliamento e degli indumenti, con l’obiettivo di identificare problemi e finalità a livello locale e sviluppare strategie a supporto dei lavoratori.

I principi guida della campagna si rifanno alla Dichiarazione sui Principi e i Diritti Fondamentali nel Lavoro dell’ILO/OIL adottata nel 1998, così come alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che già nel 1948 sanciva, all’art. 23, che: “ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione […], ad eguale retribuzione per eguale lavoro, […] ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale, […] a fondare dei sindacati e ad aderirvi per la difesa dei propri interessi.”

Sono diritti che si applicano a tutti i lavoratori incondizionatamente, anche se loro o i loro posti di lavoro non sono ufficialmente riconosciuti come tali. A questi fondamentali punti la CCC aggiunge anche principi che appunto chiamano in causa anche i consumatori, i quali hanno il diritto di sapere dove e in quali condizioni i capi che acquistano vengono prodotti. Uno degli aspetti interessanti della Campagna, che non promuove però il boicottaggio come strumento di pressione, è prevedere che qualsiasi iniziativa venga organizzata di concerto con i lavoratori o con i loro rappresentanti, proprio per valorizzare gli aspetti locali della questione, declinata diversamente a seconda delle diverse aree geografiche.

La responsabilità di garantire buone pratiche di lavoro come norma a tutti i livelli della produzione ricade quindi anche sulle industrie manifatturiere, spinte a usare la loro posizione di potere per assicurare che gli standard minimi vengano rispettati, potenziando il confronto con le unioni sindacali e condividendo un quadro normativo internazionale per facilitare questo dialogo. L’auspicio è quello di una cooperazione / collaborazione nazionale, regionale e internazionale per migliorare le condizioni della produzione industriale, basata sul rispetto reciproco e sulla costruzione di un consenso partecipato e su un criticismo costruttivo.

Purtroppo gli abusi delle sweatshop (efficace espressione che sta proprio ad indicare le “fabbriche del sudore” che sfruttano i propri operai) continuano a rimanere profondamente e significativamente radicati quali problemi sistemici. Basti pensare al titolo del rapporto curato da waronwant.org: Fashion Victims. “Vittime della moda”, sì…. E non ci si riferisce certo a star viziate che non sanno rinunciare ai propri capricci! Non tutti i marchi fanno della sostenibilità il loro punto di forza e la filosofia alla base della vita stessa dell’azienda. Per citare in questa sede solo due tra gli esempi virtuosi possibili, pensiamo al prezioso circuito del commercio equo promosso da Altromercato e al Patagonia-pensiero. È pur vero che alcune compagnie sono pronte a intraprendere iniziative per migliorare le condizioni di lavoro dei propri lavoratori e salvaguardarne i diritti fondamentali, ma di sicuro non esistono soluzioni facili e immediate per eliminare le violazioni presenti. Uno dei primi step è sicuramente l’adozione di un codice di condotta, che sia promessa di determinate condizioni di lavoro per gli operai e che abbia quali punti principali, tra gli altri, la scelta libera dell’impiego, la non discriminazione, l’assenza di lavoro minorile e un numero non eccessivo di ore lavorative (non più di 48 ore settimanali, almeno un giorno di riposo ogni 7, non più di 12 ore a settimana di lavoro straordinario).

Vale la pena allora segnalare in chiusura, ricordando tra l’altro che domani ricorre la Giornata mondiale contro il lavoro minorile, l’esistenza di un ulteriore strumento per misurare la sostenibilità dei propri capi. Si tratta dell’Higgs Sustainable Index, di cui si parla ampiamente su Greenme.it. Si tratta di un riferimento oggettivo e univoco, elaborato dalla Sustainable Apparel Coalition, per analizzare l’impatto ambientale e sociale della produzione di capi d’abbigliamento in termini di sostenibilità del design e del ciclo di vita del capo, dell’utilizzo (e degli sprechi) di materie prime necessarie alla sua realizzazione e dei livelli di consumo energetico e smaltimento dei rifiuti derivanti dalla sua produzione.

Anna Molinari


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