Un americano a Istanbul, in arrivo da Occupy Wall street

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ISTANBUL. «Ero a Parigi a un incontro per conto di Occupy Wall Street, ho letto in Rete quello che stava succedendo qui e ho immediatamente deciso di venire». Ed eccolo qui a Istanbul, Justin Wedes, educatore, cofondatore della Paul Robertson Free School a Brooklyn, attivista e organizer di Occupy Wall Street fin dal 15 settembre 2011. È arrivato sabato, quando la polizia si era appena ritirata da piazza Taksim e l’occupazione era una festa. «La musica, i balli hanno lasciato sempre più spazio a un lavoro lento ma determinato di costruzione di una comunità», racconta Wedes.
Ci incontriamo nel cuore di Gezi park, di fronte a una lezione di yoga, passeggiamo attraverso i viali, tra le tende degli occupanti che hanno deciso che non lasceranno questo spazio finché non saranno certi che i piani del governo di costruire un centro commerciale non saranno abbandonati. Ma ieri il premier Erdogan ha già fatto sapere che il progetto di cementificazione andrà avanti. Aysha, la giovanissima addetta alla reception, ci racconta la storia del suo arresto lunedì scorso a Besiktas e delle torture subite nel pullman con cui la polizia portava lei e un’altra decina di fermati verso la prigione. Justin Wedes raccoglie la testimonianza: «Penso che quello che serve adesso è che arrivino qui persone da tutto il mondo a osservare e raccontare. Non giornalisti neutrali, però: persone coinvolte, disposte a partecipare e che magari abbiano esperienze di proteste, anche se in altri Paesi e in altri contesti».
«Le affinità e le divergenze con Occupy Wall Street sono molte – spiega Justin – anche se a Taksim non c’è un’assemblea che prende le decisioni insieme sta emergendo una costruzione di una comunità intorno a una piattaforma comune. Non c’è una vera e propria leadership in senso tradizionale, come anche a Ows, ma emergono nuove forme di leadership. A Zuccotti park questo non ha funzionato per due ragioni principali: l’attaccamento troppo stretto all’ortodossia dei processi della democrazia diretta, che non erano familiari per tutti e risultavano spesso frustranti per chi si aspettava soluzioni rapide, e quello che ritengo essere stato un lavoro molto sottile ma ben pianificato dello Stato attraverso l’uso di infiltrati e disturbatori che rendevano impossibile la discussione in assemblea».
I turchi, però, sembrano più disponili al compromesso. Altrettanto determinati di Ows a non farsi cooptare da partiti e organizzazioni, ma comunque desiderosi di creare un’unità tra i diversi gruppi che compongono il parco. E il fatto di avere una rivendicazione concreta è importante per la costruzione di questa unità. Chiedere le dimissioni di Erdogan, a prescindere dal risultato concreto di questa richiesta, per Justin è importante perché permette a tutti questi gruppi di confrontarsi su quello che vorrebbero «dopo»: un cambio di costituzione? Un diverso bilanciamento tra secolarismo e islam? Maggiore attenzione ai diritti delle donne? «Sono tutte questioni che queste persone non si sarebbero trovate a discutere insieme se non ci fosse stato Occupy Gezi e la repressione brutale da parte della polizia».


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