Tesoro, perdite potenziali di almeno otto miliardi dai derivati degli anni 90
ROMA — C’è una bomba a orologeria nei conti pubblici, nel rigo dei titoli derivati. È una perdita potenziale da almeno otto miliardi di euro, pari a oltre il 25% degli strumenti di copertura di tassi e di cambio del debito che sono stati ristrutturati dal ministero del Tesoro nel solo 2012. Si tratta di derivati accesi negli anni Novanta, anche per consentire anticipazioni di cassa che permisero al governo italiano di farsi trovare pronto all’appuntamento con la valuta unica. Ma oggi, e ancor più nei prossimi anni, quel fardello del passato presenta il conto.
I dati sono frutto di elaborazioni svolte con criteri di mercato, che attualizzano i flussi attesi alla scadenza di quei derivati, e si basano sui numeri ufficiali — ma non pubblici — che il dicastero fornisce periodicamente alla Corte dei Conti, con cadenza semestrale.
Repubblica ha potuto consultare la relazione del Tesoro sul debito pubblico, inviata ai pubblici controllori a inizio 2013. Sono 29 pagine, le ultime 10 sulla «Gestione delle passività e del rischio di tasso e di cambio», ottenuta di norma con coperture in derivati. Secondo un esperto funzionario del governo, la Corte li ha letti con preoccupazione, e ha voluto saperne di più. Così lo scorso aprile ha inviato la Guardia di Finanza in via XX settembre, con un mandato di esibizione di documenti in cerca delle confirmation letter, i contratti di stipula di quei derivati, che risalgono in buona parte agli anni Novanta. Finora, però, il Tesoro non ha mostrato quegli originali alle Fiamme Gialle.
La Relazione è molto laconica nella descrizione dei contratti derivati oggetto di riassetto, una dozzina, tra febbraio e maggio 2012. Alla richiesta di maggiori dettagli, avanzata da Repubblica, il Tesoro non ha voluto commentare o illustrare i dati e le operazioni, ribadendo che si tratta di strumenti «plain vanilla» (nel gergo finanziario significa «semplici») che servono a perseguire l’interesse dello Stato, proteggendo il debito dai rischi di oscillazione dei cambi e dei tassi di interesse. In pratica, delle forme di assicurazione che possono tutelare il Tesoro da più gravi conseguenze, ma che hanno un costo nel caso in cui l’evento dal quale ci si protegge non si verifichi. Anche la Corte dei Conti, da noi interpellata, si è trincerata dietro un no comment. E analogo no comment arriva anche dalla Banca centrale europea presieduta da Mario Draghi, che fu direttore generale del Tesoro tra il 1991 e il 2001, quando molti di quei derivati furono messi nero su bianco.
Il documento, di cui oggi dà conto anche il Financial Times, è stato sottoposto all’analisi di provati esperti del settore, che hanno montato i numeri sui modelli matematici standard che il mercato utilizza per “prezzare” questi derivati. Sulla materia c’è scarsa trasparenza. Fonti del Tesoro la giustificano con l’opportunità di carattere strategico e commerciale. Ma chi ha letto quella relazione si è trovato davanti alla Stele di Rosetta degli swap italiani: una storia che risale agli anni Novanta, e che secondo i protagonisti delle vicende contribuì a tenere i conti del paese in dieta stretta quando si trattò di entrare in Europa con il primo treno. In attesa di maggiore trasparenza, solo dalle 10 pagine finali della Relazione si ricavano utili indicazioni. Le ristrutturazioni di contratti derivati sono una dozzina, tutte intercorse tra maggio e dicembre del 2012.
Nelle carte si spiega «lo spirito» con cui si è ritenuto opportuno riscrivere quei contratti. Si collega all’esigenza delle banche specialiste in titoli di stato (una ventina dei soliti nomi: le tre grandi italiane, le principali europee e le maggiori banche d’affari anglosassoni) di ridurre il rischio Italia, che altrimenti non avrebbero potuto sostenere in asta alle nuove emissioni del Tesoro. Quasi una pistola alla tempia, che si spiega con la fase drammatica di fine 2011, quando lo spread sul Btp era sopra ai 500 punti base e la finanza pubblica domestica in ginocchio. «Nel corso del primo semestre 2012 è stata portata avanti la strategia di ristrutturazione e semplificazione del portafoglio derivati, analogamente a quanto fatto nei semestri precedenti», si legge nel documento. Eccone il motivo: «Uno degli effetti della crisi, che ha investito sempre più anche i debiti sovrani, è stata la diffusione tra le controparti bancarie di modelli di analisi e valutazione che esprimono il rischio di default di una controparte priva di garanzia (…) ciò si traduce, per la Repubblica, in un maggior costo nell’esecuzione di una nuova operazione o di ristrutturazione di una esistente». «Rispetto alla struttura del portafoglio derivati dello stato — continua la relazione — caratterizzato da scadenze lunghe e privo di collateralizzazione, quanto descritto ha prodotto l’affermarsi di una forte correlazione inversa (e perversa) tra andamento del tratto a lunga della curva swap, valore di mercato del portafoglio e livello dei Cds italiani, con potenziali effetti negativi anche sul mercato primario e secondario dei titoli di Stato».
Dunque, la crisi porta le banche a presentare il conto dei vecchi derivati al Tesoro, in forma di ristrutturazioni che fanno emergere una perdita potenziale di 8.100 milioni. Un derivato è un contratto basato sul valore di mercato di uno o più beni (azioni, indici, valute, tassi d’interesse). Produce i suoi effetti alla scadenza, ma si può “prezzare” attualizzando i flussi attesi, in base all’andamento dei beni sottostanti. Quindi gli 8 miliardi saranno pagati, con ogni probabilità, nei prossimi anni, in forma di più interessi e più debito, perché dai conteggi (elaborati ai valori del 20 giugno) emerge il deprezzamento dei flussi medi previsti a oggi. Alcuni di questi flussi stanno già producendo i loro danni sui conti pubblici, perché tutte le clausole peggiorative, con finestra temporale a oggi, sono già state esercitate dalle controparti bancarie. Solo nei prossimi anni si potrà capire se il Tesoro risparmierà qualcosa sul saldo, nell’improbabile caso in cui i movimenti degli asset su cui quei derivati si basano fossero a suo totale favore. La maggior parte delle operazioni ristrutturate riguarda interest rate swap: si tratta di derivati base, per trasformare oneri sul debito di tipo variabile in fissi, e per assicurare le casse pubbliche dal rischio di rialzo dei tassi.
È una pratica normale e diffusa tra gli emittenti. Ma tutti gli swap descritti sembrano rinegoziati a un prezzo «off market», cioè non con una forte perdita iniziale per l’erario. Un’anomalia probabilmente dovuta al fatto che i contratti originari, poi revisionati, erano in realtà prestiti mascherati, che il Tesoro è oggi costretto a rimborsare a caro prezzo. Questo meccanismo, già noto agli storici dell’euro, e praticato da alcuni paesi periferici per rispettare i parametri di Maastricht, aiuta forse a comprendere come è stato possibile perdere oltre un quarto del valore nozionale sui 31 miliardi di derivati ristrutturati l’anno scorso. E getta qualche ombra sulla solidità dei conti pubblici, visto che l’Italia ha derivati per 160 miliardi, di cui un centinaio proprio in interest rate swap.
L’esempio forse più anomalo riguarda la revisione dello swap su un nozionale da 3 miliardi scadenza 2036, e modificato il 1° maggio 2012. Si tratta di un contratto degli anni Novanta, in cui Tesoro vendeva alla banca di turno una swaption, ossia l’opzione a entrare in un contratto swap dal 2016 al 2036. Su quei 3 miliardi di debito pubblico, in cambio di un anticipo di cassa ricevuto all’epoca, il Tesoro si impegnò a pagare un futuro tasso fisso del 4,652% su 3 miliardi di propri titoli, ricevendo in cambio l’interesse Euribor 6 mesi (attualmente, poco più di zero). Ma nel marzo 2012, con quattro anni di anticipo, lo Stato rinegozia quello swap, e lo trasforma in un nuovo scambio di tassi — sempre fisso contro variabile — su una scadenza inferiore (circa 6 anni) e su un controvalore triplicato a 9 miliardi.
La Relazione qui si ferma. Le elaborazioni indicano che quel derivato “prima versione” aveva un valore negativo per lo Stato di 900 milioni al momento del riassetto. E un valore negativo di 1.350 milioni nella versione rinegoziata. Perché mai rinegoziare un contratto aggiungendo 450 milioni di perdite attese per l’Erario? Anzi, dal marzo 2012 a oggi quel derivato ha aumentato il valore negativo di 1.550 milioni, confermando gli assunti probabilistici secondo i quali solo nel 18% dei casi poteva generare, nel tempo, un beneficio per le casse pubbliche.
«Molti errori sono stati fatti negli anni Novanta per far entrare l’Italia nell’euro — racconta un funzionario governativo — e oggi si trasformano in più debito, nascosto dai conti ufficiali, in un’area molto grigia che al Tesoro solo poche persone sono in grado di comprendere e maneggiare». Talmente poche, le persone, che è stata notata la nomina di Vincenzo La Via a direttore generale del Tesoro, nella primavera 2012. Dopo un lungo cursus internazionale, La Via è tornato in via XX Settembre, dove aveva già operato tra il 1994 e il 2000. E dove aveva firmato alcuni di quei contratti derivati, oggi in fase di riscrittura.
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Il retroscena Da Morgan Stanley e Siniscalco un conto da 3 miliardi di euro
ROMA — La relazione del Tesoro alla Corte dei conti contiene anche dati inediti sulla chiusura del derivato di Morgan Stanley, del gennaio 2012, che potrebbe essere costata all’erario mezzo miliardo in più rispetto ai 2,56 miliardi che già suscitarono polemiche e l’interrogazione dell’Idv. Il governo Monti aveva risposto per bocca del sottosegretario all’istruzione, Marco Rossi Doria: «Un caso unico», disse. Tale swap godeva infatti della «clausola di terminazione», che nel 1994 la banca Usa aveva strappato per sfilarsi a certi livelli del rating italiano e oltre un’esposizione di oltre 50 milioni. Ma neanche dopo il crac Lehman, quando quello swap perdeva mezzo miliardo, la clausola fu invocata, né i tecnici del Tesoro s’indussero a rinegoziare. Morgan Stanley, anche per problemi sul proprio rischio-banca, bussò a fine 2011, nel momento peggiore per la finanza italiana. La relazione alla Corte dei conti descrive l’istruttoria del Tesoro, le alternative scartate (nuove controparti e maggior collaterale) e la decisione di chiudere, in due fasi per ragioni di liquidità: il 3 gennaio pagando 2,56 miliardi, il 13 gennaio «circa 527 milioni» per la seconda fase. La clausola di terminazione con la banca guidata in Italia da Domenico Siniscalco — ex ministro del Tesoro — fu, almeno, eliminata.
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