SE PER TROVARE DIO BISOGNA RINNEGARLO

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Come i pittori di talento dipingono sempre lo stesso quadro, allo stesso modo i veri autori scrivono sempre lo stesso libro, arricchito di nuovi riferimenti e argomentazioni. Ma raccolto comunque intorno al cuore del problema da cui lo scrittore trae ispirazione ed energia creativa. È quanto si può dire accada a Marco Vannini, di cui Bompiani ha appena pubblicato Oltre il cristianesimo. Da Eckhart a Le Saux.
In esso egli riprende il tema di fondo dei libri precedenti — l’opposizione tra mistica e teologia — spingendolo a un grado di profondità e di radicalità ancora maggiore. Quello che in essi era una direzione possibile, diventa qui l’esito di un percorso compiuto. Il suo sguardo, da tempo volto alle grandi questioni della mistica, nella loro tensione con l’orizzonte cristiano, si sposta adesso oltre di questo. E anzi oltre il linguaggio dei tre monoteismi, in un viaggio senza argini verso la concezione induista e buddista.
Ad accompagnare l’autore in questo esodo verso Oriente è il monaco benedettino francese Henri Le Saux che, arrivato in India, non ne è mai tornato, penetrando nell’anima profonda della spiritualità hindu, senza smettere di sentirsi cristiano. Come risulta dal suo Diario, il suo incontro con il saggio Ramana Maharshi lo ha segnato in maniera indelebile, convincendolo della superiorità spirituale delle Upanishad e della Bhagavadgita rispetto ai testi della tradizione ebraico-cristiana. Ma ciò non in contrasto con l’originario messaggio evangelico — almeno prima che fosse “normalizzato” nella dottrina elaborata da San Paolo — bensì in continuità con esso. Come aveva sostenuto Simone Weil, sia la Sinagoga che la Chiesa hanno tradito il senso più riposto della parola di Cristo, ingabbiandola nel canone teologico, cui Vannini contrappone la dimensione mistica.
Per fissare il punto in cui quest’ultima confluisce nel doppio alveo induista e buddista, Vannini ripercorre originalmente la via tracciata da Ananda K. Coomaraswamy nel suo libro Induismo e buddismo (Rusconi). La porta d’ingresso, per entrambi, è costituita dall’opera del grande mistico medioevale Meister Eckhart, situato all’origine di una tradizione che comprende non soltanto autori di ispirazione spirituale quali Margherita Porete, Giovanni della Croce o Fénelon, ma anche filosofi irreligiosi e perfino atei come Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche. Cosa è che li collega, per nella assoluta distanza? Qual è il punto di raccordo, e certo di tensione, tra mistica e ateismo nel comune contrasto con il lessico teologico-politico del pensiero cristiano? La figura decisiva di questo problematico nesso, intorno alla quale ruota l’intera ricerca di Vannini, è rappresentata dal distacco. Solo distaccandosi da se stesso, l’uomo può aprire lo spazio vuoto entro il quale accogliere Dio, fino a fare tutt’uno con lui. Naturalmente ciò prevede una doppia decostruzione della metafisica, insieme greca ed ebraico-cristiana: da un lato la rinuncia all’amor proprio, coincidente con il primato della volontà personale sull’intelletto universale, dall’altro il rifiuto della concezione mitica di Dio come soggetto creatore. In tal modo si rompe la macchina teologica, ma anche politica, del dualismo che fa di Dio null’altro che la proiezione oggettiva di quel che l’uomo presume di sé e si rende possibile il riconoscimento estatico dell’unità del Tutto. Ogni tipo di beatitudine, pensata in Occidente come in Oriente, riproduce, in forma varia, questo passaggio che identifica soggetto e sostanza, avere ed essere, umanità e divinità. Da Giovanni Taulero a Niccolò Cusano, da Sebastian Franck ad Angelus Silesius, la mistica occidentale perviene a toccare i confini del discorso teologico, eccedendolo nel suo spazio esterno. Se Bruno e Spinoza già rompono il linguaggio della persona a favore di un universo integrato in cui ogni individuo è parte di un tutto che lo comprende, è Nietzsche a compiere il passo ultimo: abbandonare quanto ha di più prezioso, per l’uomo, significa abbandonare anche la sua idea di Dio — «Perciò — conclude Eckhart — prego Dio che mi liberi da Dio». Solo nella sua assenza Dio può mostrarsi senza indossare la maschera dell’idolo. E solo così il fondo dell’anima può identificarsi con il fondo di Dio. È il punto estremo in cui l’assoluta trascendenza viene a coincidere con l’assoluta immanenza — l’essere, umano e divino, non è altro da una vita infinita che non conosce soglie, disuguaglianze, gerarchie. Pura luce in cui la conoscenza non è diversa dal tutto che conosce e in cui la parola, non potendo definire nulla di delimitato, sfuma nel silenzio. Da qui il passaggio, per Vannini possibile e necessario, dal nucleo inespresso del Cristianesimo all’Induismo e al Buddismo, a loro volta collegati nel distacco dal proprium e nel ricongiungimento con l’unità divina. Naturalmente è possibile criticare la posizione di Vannini come sincretistica, gnostica e contraddittoria. La massima religiosità appare, in essa, pericolosamente vicina alla massima bestemmia. Ma la sua forza sta proprio nell’assumere e far propria questa contraddizione. Sostenerla in tutta la sua asperità è, per l’autore, l’unico modo di essere religiosi nell’era postreligiosa. O di essere cristiani oltre il cristianesimo.


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