by Sergio Segio | 21 Giugno 2013 7:37
Le ragioni di tale ritardo, sembrano suggerire i risultati della ricerca promossa da Palazzo Koch, risiedono nelle molteplici sfaccettature dei gap che affondano in radici non ancora studiate in modo integrato e richiedono, per essere ridotti, un approccio che vada al di là dell’esame degli stereotipi, peraltro ancora molto concreti, dei vincoli della famiglia e della maternità.
Tra le cause dei persistenti divari vengono individuati sia fattori di offerta (da parte delle donne), sia di domanda (da parte del mercato del lavoro). Tra i primi spiccano la scarsità di strumenti di conciliazione e l’organizzazione del lavoro, ancora poco flessibile; per alcuni aspetti, anche l’istruzione. Tra i secondi rilevano le componenti culturali e fenomeni di discriminazione «implicita», per cui vengono premiate sul mercato del lavoro caratteristiche più diffuse tra gli uomini, come l’attitudine alla competizione, sebbene non rilevanti per il lavoro svolto. Si discutono inoltre alcune delle politiche volte a ridurre i divari: la normativa nazionale e le politiche regionali; gli incentivi all’imprenditoria femminile; una tassazione che non scoraggi il lavoro femminile.
Ma sono i dati, le cifre, i punti di partenza dei vari studi dei ricercatori della Banca d’Italia. Il tasso di occupazione femminile, innanzitutto, che è pari al 55,5% al Centro Nord e al 31,4% nel Mezzogiorno. Il differenziale rispetto agli uomini si presenta più elevato nella classe di età 35-54 anni, ma è rilevante già tra i giovani poco dopo la laurea. Gli ultimi dati di AlmaLaurea (2013) indicano che, a un anno dalla laurea specialistica, lavora il 63% dei maschi, contro il 55,5% delle femmine, anche la distanza si va riducendo visto che la crisi sta penalizzando pesantemente tutti i giovani indipendentemente dal genere. Per coloro che sono occupati esiste comunque una differenza anche sulla retribuzione mensile: ad un anno dalla laurea in media i ragazzi guadagnano il 32% in più delle loro colleghe (1.220 euro contro 924 euro mensili netti); a cinque anni il differenziale è pari al 30%(1.646 contro 1.266 euro). E ciò a fronte di un divario «grezzo», ottenuto confrontando i valori medi dei salari per uomini e donne, del 6% a metà degli anni ’90, che diventa il 9% nel 2008 (13% se si tiene conto delle caratteristiche individuali delle imprese).
Molto dipende dalle più esigue possibilità che hanno le donne di far carriera, nelle banche come nelle imprese. Nelle società italiane (con oltre 10 milioni di fatturato) le donne presenti in consiglio di amministrazione erano nel 2011 il 14,5%. La crescita negli ultimi anni è stata modesta (erano il 13,7% nel 2008) e la nuova legge sulle quote di genere, entrata in vigore nell’agosto del 2012, non ha mutato di molto il quadro generale. Tanto per dare un’idea, in occasione delle sostituzioni di amministratori delegati nel 2011, un uomo è stato sostituito con un uomo nel 92,3% dei casi; una donna con un uomo l’85,5% delle volte. Infine, esistono ostacoli anche in un altro ambito professionale, quello imprenditoriale. Il più difficile accesso al credito delle imprese femminili non è un fenomeno solo italiano, anche se non c’è differenza sotto il profilo della redditività, le imprese femminili in difficoltà si rivelano debitori più virtuosi, in grado di recuperare meglio delle ditte maschili. È infine provata la maggiore avversione delle donne alla corruzione.
Stefania Tamburello
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2013/06/rinnovo-dei-cda-le-manager-vengono-sostituite-da-uomini-nell85-dei-casi/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.