Quell’appello sull’azione dei magistrati

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La memoria di Giorgio Napolitano è proverbiale quasi quanto la sua pignoleria. Se dunque cita se stesso, lo fa alla lettera e soprattutto a ragion veduta, mai per una scelta incidentale, di quelle che a volte uno si concede per «vestire» meglio il discorso. Così, quando ieri ha pronunciato una frase molto forte pescandola da un passato indistinto («mi torna alla mente quel che anni fa ebbi modo di sottolineare…»), è parso decisivo approfondirne il senso. Per capire che cosa intendesse davvero. «Occorre che ogni singolo magistrato sia pienamente consapevole della portata degli effetti, talora assai rilevanti, che un suo atto può produrre anche al di là delle parti processuali».
Questa la frase. Che, inserita subito dopo un richiamo alla responsabilità, all’imparzialità e all’equilibrio («indispensabile quando ci sono difficili equilibri politici») dei neo-magistrati nel «contesto di cambiamento» epocale in corso, induceva a riflettere con curiosità su qualche esempio concreto cui sia applicabile il richiamo del capo dello Stato. Le possibilità sono diverse e tutte più o meno plausibili, per chi voglia cercare dei nessi tra causa ed effetto di un’azione giudiziaria.
Alludeva forse a una storia come quella, controversa, dell’Ilva di Taranto, dove l’iniziativa delle toghe sta producendo — guarda caso — ricadute oggettive «assai rilevanti» per la stessa sopravvivenza della grande fabbrica? O magari a qualche particolare scandalo che coinvolge pubbliche amministrazioni, dell’infinita serie scoperchiata dalle Procure e che stanno esasperando il distacco dei cittadini dalle istituzioni? O ancora, e più banalmente, all’eterno scontro tra politica e toghe che vede oggi Silvio Berlusconi in veste di imputato alla sbarra in differenti tribunali?
Il presidente della Repubblica, com’è ovvio, non fa riferimenti precisi. E, certo, legare le sue parole a vicende specifiche rischia sempre d’essere strumentale. Tuttavia, se si squadernano i testi dei suoi interventi in questa materia, non è difficile trovare dove e quando disse quelle parole. È stato il 14 febbraio 2008, davanti al plenum del Consiglio superiore della magistratura, che a norma di Costituzione presiede e al quale indirizzò parole piuttosto ruvide (e non fu l’unica volta).
A colpirlo, allora, sembravano essere le tensioni che si erano accumulate sui casi — non citati, ma trasparenti per l’enorme riverbero polemico — dei giudici Forleo e De Magistris, quest’ultimo impegnato in un braccio di ferro con altri magistrati al lavoro in un’inchiesta che coinvolgeva il ministro della Giustizia Clemente Mastella e la moglie Sandra Lonardo. Prove di forza e tensioni su cui Mastella si era appena dimesso, accelerando la caduta del governo Prodi. Un clima tale da indurre il presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Barbone, a esporsi in una obliqua censura mutuata poi da Napolitano. Il quale aveva stigmatizzato «la spettacolarizzazione dei processi» e incitato tutte le parti in causa a una «tregua» nel rispetto di equilibri e regole, per ristabilire un corretto rapporto tra poteri dello Stato.
Più o meno come si è sentito costretto a fare ieri, con un’esortazione che è sembrata concepita in chiave preventiva. Chissà, forse il presidente pensa ad alcune delicatissime scadenze che rischiano di riaccendere le polveri del conflitto politica-giustizia, con potenziali ricadute sulla fragile stabilità della maggioranza di larghe intese. Non pare casuale, infatti, che abbia ricordato la necessità di un «indispensabile, effettivo riconoscimento, con spirito di rispetto e leale collaborazione, del giudice delle leggi». Cioè di quella Corte costituzionale divenuta ormai da tempo bersaglio di critiche da più parti e che si prepara a sentenziare su due fronti critici: 1) la pretesa di legittimo impedimento avanzata da Berlusconi quand’era premier, e che fece saltare un’udienza di un suo processo; 2) l’avallo, o la bocciatura, della nuova geografia dei tribunali disegnata nella logica di una revisione della spesa.
Quest’ultimo è, anzi, uno dei punti cruciali del suo discorso. Lo dimostra il tono con cui ha definito — lui abituato a misurare fino alle virgole quello che dice — «scandaloso e inaccettabile rimettere in discussione la riforma delle circoscrizioni giudiziarie per ciechi motivi di particolarismo politico».


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