Quando la democrazia funziona al 50 per cento
Però quanti allarmi del lunedì riecheggiati a vuoto; quante vane geremiadi sull’apatia, la rabbia e la sfiducia che andavano intrecciandosi con l’eterno individualismo italiano, con quell’istinto di furba noncuranza e anarcoide “particulare” che già spinsero Guicciardini a scrivere: «E spesso tra ‘l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso… «.
Spesso, si badi, non sempre. E non solo perché l’esercizio del voto è stato a lungo, per legge, «un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese». Una norma prevedeva addirittura per gli astenuti l’esposizione in una specie di gogna, l’albo comunale, così come la menzione “Non ha votato” era da registrarsi nel certificato di buona condotta.
Nel 1993 la nascente Seconda Repubblica cancellò quella legge e quelle sanzioni, peraltro mai applicate, delegando la questione al dettato costituzionale che all’articolo 48 definisce il voto un “dovere civico”. Per la verità, i Padri costituenti discussero se considerarlo un dovere anche “morale”. Chissà cosa penserebbero oggi nell’apprendere che tra le ragioni della scarsa affluenza al primo turno per il Campidoglio c’è chi ha segnalato il derby Roma- Lazio.
Era quell’Italia un paese appassionato di elezioni, oltre che di partite. Il record della partecipazione, 93,8 per cento, fu toccato nel 1953; e neanche a farlo apposta, proprio al termine di quella campagna elettorale Nicola Adelfi scrisse sull’Europeo che oltre al simultaneo svolgersi del Mese mariano, dell’incoronazione di Elisabetta II d’Inghilterra e all’uscita del Millecento Fiat, anche – e proprio! – la sconfitta calcistica dell’Italia da parte della selezione ungherese (3 a 0) aveva contribuito ad affollare le urne, galvanizzando gli elettori comunisti e suscitando in quelli di destra il desiderio di una rivincita per l’orgoglio nazionale ferito.
Tutto insomma incoraggiava il voto, dopo vent’anni di dittatura. I partiti, è vero, ci mettevano del loro, le foto d’epoca illustrano uno sforzo organizzativo commovente e capillare, camion, pullman, istituti religiosi, accompagnamento ai seggi di ammalati e di anziani. Le passioni e le tensioni ideologiche, l’esistenza di “nemici per la pelle” facevano il resto.
Così fino agli albori del “riflusso”, che corrisponde alle politiche del 1979, l’astensione non andò oltre il 7-8 per cento. Ma adesso che quella modesta quota si è moltiplicata per sei e che l’assenteismo sta per sfondare il 50 per cento, diventa un’impresa anche solo chiedersi cosa diavolo ha gonfiato a dismisura il partito invisibile della fuga e cosa c’è dietro l’attrazione del vuoto, l’energia dell’assenza, il potere della collera che si fa estraneità, disgusto, rifiuto. Altro che “disaffezione”, come pure per anni si è cercato di edulcorare il fenomeno.
E certo colpisce la povertà di analisi, di coraggio e fantasia al riguardo. Per cui le spiegazioni sono tante, o meglio sono troppe, che poi sarebbe un modo per dire che la faccenda è scivolosa, e quando le cause si confondono con le conseguenze vuol dire trovarsi nel cuore della crisi democratica.
Certo, anche al netto della fine del partito di massa, non ha giovato l’inflazione di referendum falliti, né la periodica tiritera «Andate al mare» (Craxi) o «Restate a casa» (Berlusconi) e neppure l’imprevidente scorciatoia «non partecipo quindi vinco» con cui un po’ tutti, compresi i vescovi, hanno finito per demoralizzare le scelte dei cittadini.
Allo stesso esito devono poi aver contribuito le ricorrenti recriminazioni sui costi delle elezioni e sui presunti brogli, oltre al caos dei sistemi di voto, che in Italia sono sette, record europeo di complicazione. Senza contare la pigrizia e la voglia di non sporcarsi le mani, il ribellismo e l’ignoranza, la stanchezza, il menefreghismo e la passività.
Ma è anche possibile che su un altro piano c’entri una politica ridotta ad annunci, consacrazioni e risse da talk-show, certe asprezze maggioritarie, una legge elettorale definita una “porcata” dal suo stesso autore, donde le bellone beneficate dal sovrano, i ladri nominati in Parlamento per non finire in galera e quanto porta il “dovere civico” a essere percepito come un inutile rito, un goffo alibi, comunque un’espressione ormai lontana dalla vita e dal cuore. E neanche più Grillo riesce a scaldare le urne.
E tuttavia nella diserzione di massa può esserci qualcosa di ancora più inconfessabile, tipo il calcolo che nel tempo della casta e dell’antipolitica, gli opposti estremismi della Terza Repubblica, le elezioni si vincono al ribasso: quanta meno gente vota, tanto più alta la probabilità di acchiappare il successo. Inutile dire che sopra, sotto e dietro tutte queste patologie s’indovina l’ombra del più inesorabile istinto di morte. E se la democrazia ha qualche opportunità di rinascere, ma in forme davvero nuove, è esattamente con esso che toccherà fare i conti.
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