by Sergio Segio | 19 Giugno 2013 7:46
Una stima che — a dire delle stesse fonti — sale a «40-50» se ai convertiti si dovessero sommare musulmani di prima e seconda generazione che dal nostro Paese avrebbero preso di recente la strada per il fronte di Aleppo e Qusayr. Ma, va aggiunto, una stima smentita in serata sia dal nostro ministro degli Esteri Emma Bonino («Non credo proprio che si sia di fronte a una possibile ondata di terroristi islamici in partenza dall’Italia»), sia dalle parole del direttore del Dipartimento Informazione per la Sicurezza, Giampiero Massolo che esclude per l’Italia la condizione di «bacino di reclutamento ».
La questione tuttavia non si chiude sui numeri. Girate agli addetti della nostra Intelligence, le domande che la storia di Delnevo pone, sollecitano infatti risposte articolate. «Quando uno si accorge di avere una brutta febbre — dice una fonte qualificata del Dis — è evidente che è opportuno fare qualche esame clinico in più per stare tranquilli e concludere che si tratta solo di febbre e non di qualcosa di peggio. Noi lo abbiamo fatto e non crediamo di andare lontano dal vero se, complessivamente, diciamo che i “convertiti” italiani radicalizzati e dunque meritevoli di attenzione di cui abbiamo contezza non superano le dita di una mano. E, per altro, sono tutti attualmente monitorati ».
Fino a ieri, tra loro, c’era appunto anche Giuliano Delnevo, entrato negli archivi dell’Aisi (il nostro Servizio Interno) circa un anno e mezzo fa con identità, foto, data di nascita e quel nome assunto con la conversione (Ibrahim), con cui aveva dato segno di sé nel suo percorso di radicalizzazione, dentro e fuori la Rete, e che lo avrebbe alla fine portato in Siria. L’Aisi lo aveva “perso” circa un anno fa, quando da Genova era partito per la Turchia e lo aveva “ritrovato” dove è poi morto grazie alla segnalazione di «un Servizio alleato» che lo aveva individuato a Qusayr grazie alle informazioni raccolte dalla formazione combattente in cui si era arruolato e con cui non aveva certo fatto mistero né dei suoi natali italiani, né della sua conversione.
«Il Delnevo “convertito” e poi combattente — aggiunge la fonte del Dis — ci appare oggi per quello che è. Un fungo spuntato all’improvviso in un panorama altrimenti piatto. Figlio di una dinamica che a noi risulta personalissima e individuale. Dunque, non un caso che ci consenta oggi di definirlo il pesce pilota di qualcosa di più strutturato. Diciamo pure un caso “alfa”, statisticamente parlando, anche se con un precedente piuttosto vicino nel tempo ». Il riferimento è ad Andrea Campione, 29 anni, operaio, originario di Montelabbate (Pesaro), anche lui giovane “convertito”, anche lui sposato come Giuliano Ibrahim con una giovane marocchina, ma diversamente da lui arrestato il 23 aprile del 2012 con l’accusa di aver veicolato propaganda qaedista sulla Rete e perché in rapporti con un cittadino marocchino a sua volta accusato di aver pianificato un attentato contro la sinagoga di Milano.
I numeri dicono qualcosa, dunque. Ma non tutto. Anche perché, all’Aisi come al Dis, nessuno sembra voler nascondere né dissimulare la preoccupazione per questi primi casi di radicalizzazione dei “convertiti” dietro la loro bassa incidenza statistica. «Purtroppo — ragiona una fonte qualificata dell’Aisi — quello che è accaduto a Londra con i due cittadini britannici convertiti di origine nigeriana e a Parigi, con un cittadino francese, dimostra che la pericolosità potenziale di questo tipo di terrorismo è decisamente più alta di quella dei cosiddetti
homegrown terrorists, i radicalizzati di seconda generazione, figli di musulmani e dunque di religione musulmana dalla nascita. Il “convertito” vive normalmente in un cono di sorveglianza minore. Anche perché, il più delle volte, la sua scelta religiosa, almeno in Italia, si manifesta in luoghi di culto e in associazioni di segno moderato. E dunque il suo livello di integrazione e invisibilità nel mondo da cui decide di divorziare è assoluto. Il che rende più difficile prevenirne le mosse». Una caratteristica che, a maggior ragione in un paese come il nostro, apre, in prospettiva, scenari non proprio rassicuranti. «L’Italia — prosegue la fonte dell’Aisi — è storicamente considerata una retrovia logistica della Jihad. È il luogo del proselitismo, ma non dell’attacco. Ebbene, un “convertito” ha in sé, senza bisogno di reti o cellule, un potenziale di efficienza incomparabile se qualcuno dovesse decidere di utilizzarlo come arma all’interno del Paese. Diciamo allora che una nube come Delnevo non annuncia la tempesta. Ma neppure il sole».
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