POVERI AGRICOLTORI
La riforma che dovrebbe orientare la qualità del nostro cibo, un possibile e auspicabile ritorno alla terra delle nuove generazioni, la cura dell’ambiente e dei territori, ha perso un’occasione storica. È stata dibattuta come non mai, partecipata dalla società civile e dalle associazioni che hanno fatto sentire forti e chiare le loro istanze, ha coinvolto per la prima volta il Parlamento europeo per dar voce ai cittadini. Ma gli obiettivi di una politica agricola più verde, equa e in grado di destinare fondi pubblici (il 40% del budget europeo) in favore di beni pubblici come il paesaggio, la qualità dei suoli e la salute, sono stati in gran parte non raggiunti oppure demandati a decisioni degli Stati membri.
Ecco, al di là delle considerazioni su che cosa è stato deciso, è importante vedere che cosa invece non è stato deciso, lasciando libertà di scelta ai singoli Stati: la questione sul supporto ai piccoli agricoltori; la riduzione dei pagamenti più corposi (il 20% delle aziende prendeva l’80% dei sussidi) o del tetto massimo percepibile in un anno; la facoltà di dedicare buona parte delle risorse destinate allo sviluppo rurale – cioè a pratiche ecologiche, sociali e produttive all’avanguardia – in favore delle rendite fondiarie (i pagamenti diretti in funzione di quanta terra si possiede) o per forme assicurative private che possono diventare deleterie.
Ora ai cittadini toccherà fare pressione sui loro Governi, il lavoro non è finito. Ma a cosa serve una Politica Agricola così importante in termini di budget e di argomenti, che dovrebbe sin dal nome essere Comune, se comune non lo è? Se non è in grado di proporre idee forti, che paghino con i nostri soldi qualcosa per cui tutti potremo avvantaggiarci? Qualcosa che ha a che fare con i beni comuni? C’è chi ha fatto notare che s’intravede nella mancanza di certe decisioni una sorta di “de-europeizzazione”.
È questione non da poco, perché ci sono diversi “fronti” che la Pac dovrebbe avvicinare, su cui dovrebbe mediare o essere dirimente in favore dei cittadini. Il primo lo potremmo chiamare “agroindustria contro piccola agricoltura”. Ci si può accapigliare all’infinito se era meglio o no obbligare tutte le aziende a destinare una piccola percentuale dei loro terreni al mantenimento di aree con funzione ecologica (3, 5 o 7%? Per la cronaca ha “vinto” il 5), ma di cosa stiamo parlando di fronte al fatto che da un lato abbiamo aziende che percepiscono 300.000 euro all’anno di sussidi mentre per i piccoli agricoltori gli Stati possono scegliere di dare un contributo annuo fino a 1.250 euro? Cosa cambiano queste cifre nell’economia di un’azienda? Le
centinaia di migliaia di euro mantengono in piedi un sistema monoculturale e non sostenibile; il migliaio sembra invece un “regalino” che certo non cambia il lavoro e la vita di una piccola azienda. È vero, ai piccoli agricoltori sono stati tolti molti obblighi burocratici, ma un aiuto concreto è un’altra cosa. In proporzione il contributo che loro restituiscono in cibo sano e buono, in cura del territorio e in beni di tutti è infinitamente più prezioso di mille euro all’anno. Da questo punto di vista la riforma Pac sembra abbia “cambiato affinché nulla cambiasse”: il grosso della torta continua ad andare ai grossi.
Un altro fronte sono le agricolture degli Stati membri di lungo corso contro quelle degli ultimi arrivati, i Paesi dell’Est. Queste ultime sono agricolture fragili, meno moderne e per questo ancora ricche di diversità naturale e produttiva: hanno diritto di crescere, ma anche di essere in qualche modo tutelate. Si parlava di “convergenza interna” per equiparare i sussidi, ma anche in questo caso alla fine decideranno i singoli Stati.
Poi c’è la questione “Europa contro Paesi in via di sviluppo”. In questo caso, se si guarda fuori dai confini continentali, ecco che magicamente torna l’unione: non è stato previsto nessun meccanismo di monitoraggio sugli effetti delle politiche commerciali della Pac – come i sussidi alle esportazioni o prezzi artificiosamente bassi – nei confronti dei piccoli agricoltori in Asia e in Africa.
Sono rimasti tutti uniti anche per annacquare le misure di “inverdimento” o “greening” delle pratiche agricole. È importante che il concetto sia stato introdotto, ma sono state anche previste così tante eccezioni nei regolamenti attuativi che il 60% delle terre coltivate europee alla fine potrebbe esserne esentato. Un buon indirizzo, ma un obbligo soltanto sulla carta.
Anche se si registrano alcuni aspetti positivi, come il già citato snellimento burocratico o l’aumento di risorse per i giovani agricoltori, questa è una Pac che lascia l’amaro in bocca. L’Europa sembra rimanere ancorata ai vecchi schemi del liberismo e delle lobbies multinazionali, senza il coraggio di proporre veri cambiamenti legati a prospettive nuove, mondiali, moderne. Quest’Europa ha generato una Politica Agricola Comune che ha poco di comune, che sembra nascondersi dietro le frammentazioni invece di imporre a tutti un indirizzo alto e nobile, severo e nell’interesse pubblico.
In tema di cibo e agricoltura, questa stessa Europa ci spinge a ripartire dalle nostre diversità per raggiungere un’unità che evidentemente è ancora tutta da definire. Mentre i piccoli agricoltori lottano da soli, i giovani hanno difficoltà a tornare alla terra, l’agroindustria continua a dominare e lo sviluppo di nuovi paradigmi sociali, economici, culturali, agricoli e alimentari, è lasciato tutto in mano a quei cittadini e contadini europei (loro sì!) dotati di tanta buona volontà e di copiose fresche idee. A ben pensarci, forse, sono proprio loro gli unici che ci fanno intravedere come sarà la vera «unione europea » del futuro.
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