Pochi investimenti su persone e conoscenza Ecco il vero freno a una ripresa sostenibile
Quello che conta veramente — stabilisce l’analisi basata su nuovi sistemi di misurazione — è avere in essere le condizioni affinché si mobiliti una quantità elevata di cosiddetto «capitale di innovazione»: tra il 1995 e il 2007, infatti, esso è stato responsabile del 53% della crescita della produttività del lavoro nei 16 Paesi presi in considerazione dallo studio. Il problema dell’Italia è che questo innovation capital ha pesato, dal 1995 in poi, solo per il 25% del prodotto interno lordo: poco più del 23% della Russia ma meno di tutti gli altri Paesi, per esempio la Germania con il 34%, la Francia con il 35, la Gran Bretagna con il 40, gli Stati Uniti con il 51%. «L’Italia è un Paese che non investe nel futuro», sostiene Leonardo Totaro, managing director di McKinsey per i Paesi del Mediterraneo. Per colmare il differenziale, occorrono riforme profonde.
Sono tre le grandi aree che vanno a comporre il capitale di innovazione. Quello fisico che rappresenta il 16% del complesso degli investimenti in innovazione: si tratta di denaro pubblico e privato destinato a infrastrutture di alta tecnologia. Il capitale di conoscenza, che pesa per il 60% del totale: ricerca e sviluppo, software e database, esplorazioni minerarie, intrattenimento, architettura e design, ricerca in pubblicità e marketing, innovazione finanziaria, venture capital. Infine, il capitale umano, pari al 24% dell’innovazione: istruzione universitaria, training e formazione d’impresa, investimenti per migliorare le organizzazioni. Questo complesso di denaro destinato all’innovazione e all’economia intangibile ha una dimensione di 14 mila miliardi di dollari nei 16 Paesi analizzati: è il 42% dei loro Pil e dal 1995 è cresciuto del 4,6% l’anno. Dei tre tipi di capitale di innovazione, quello che dà i ritorni maggiori — le imprese italiane farebbero bene a prenderne nota — è il terzo, il capitale umano: un ritorno del 40% superiore a quello del capitale di conoscenza.
«Gran parte delle politiche attuali — dice Totaro — è pensata per un mondo in cui il capitale fisico è preponderante. In realtà, nelle economie moderne è cresciuto in misura esponenziale il ruolo degli attivi intangibili. Sono queste le aree di crescita ed è in questa direzione che vanno redistribuite le risorse». Serve creare le condizioni affinché i capitali vadano verso quei settori e business dove l’economia «ha il turbo» e corre. «Le scommesse — sostiene il capo italiano della McKinsey — si fanno su settori, prodotti e geografie che crescono: è più importante questo che essere bravi in un settore che non cresce». L’avere investito poco in innovation capital ha significato per l’Italia aumentare la produttività dello 0,5% l’anno tra il 1995 e il 2007, contro l’1,7% della Germania, l’1,8% della Francia, il 2,8% di Gran Bretagna e Stati Uniti. I gap maggiori — dice la ricerca — sono la scarsa digitalizzazione del Paese, l’insufficiente istruzione di qualità e il basso investimento in ricerca e sviluppo dovuto in buona misura alle scarse dimensioni delle imprese italiane. «Alla nostra economia — commenta Totaro — non serve si diano pesci, occorre insegnarle a pescare, metterla in condizioni di fare ricerca». Secondo McKinsey, dunque, l’Italia dovrebbe avviare riforme radicali ma non impossibili. Abbattere le barriere agli investimenti, aumentare gli incentivi alla ricerca, creare sistemi di protezione dei diritti di proprietà intellettuale per dare efficienza e garanzie ai brevetti. Poi, incoraggiare l’imprenditorialità semplificando la burocrazia e facilitando l’accesso al capitale; favorire la diffusione dei talenti attraverso la mobilità lavorativa, l’omogeneizzazione delle normative sul lavoro e il bilanciamento delle competenze tra domanda e offerta; favorire la collaborazione tra imprese, università, amministrazione pubblica. Lo Stato, infine, può svolgere un ruolo importante adottando tecnologie avanzate alle quali il settore privato dovrebbe poi adeguarsi. Il denaro a pioggia è sprecato.
Danilo Taino
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