Nozze gay, la sentenza divide gli Usa i repubblicani: “Daremo battaglia”

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NEW YORK — «La lotta continua»: urla dal palco in fondo a Christopher Street l’ultimo degli oratori. I comizi per celebrare la doppia sentenza della Corte Suprema che stabilisce uguali diritti nei matrimoni omossessuali stanno finendo, comincia la festa. Ma il mattino dopo, smaltita l’ubriacatura di gioia e birra, il sole non brilla più come luccicava mercoledì. La vittoria resta, ma arrivano anche i primi dubbi: la lotta deve continuare. «C’è ancora tanta strada da fare, questo è un momento fortunato ma è anche il tempo ideale per ottenere altri risultati», dice al New York Times Susan Sommer, esponente della Lamda Legal, che aggiunge: «Viviamo ancora in un paese patchwork e ora, dopo la decisione dei giudici questo è diventato ancora meno sostenibile». Il nodo del problema è che la sentenza della Corte Suprema non va a intaccare l’autonomia dei singoli Stati. I 37 che ancora non riconoscono come legali le unioni tra coppie dello stesso sesso possono continuare a tenere il divieto in vigore. E così resta “il paradosso dell’Amtrak”, come viene chiamato dagli attivisti per i diritti dei gay. Il riferimento è alla linea ferroviaria che collega le città della costa est: se scendi in una stazione il matrimonio, e dunque i diritti a esso collegati, è valido, in quella dopo non lo è più.
Ed è da questo che parte il presidente Obama quando torna a commentare la sentenza: «Sono convinto che se ti sposi nel Massachu-setts, sei sposato anche quando cambi città», dice dal Senegal dove è appena arrivato. E poi approfitta delle leggi omofobe del paese africano che lo ospita per ribadire: «Quella di martedì è stata una decisione storica per la comunità gay e per la democrazia americana. Penso che i governi non dovrebbero discriminare le persone in base al loro orientamento sessuale e che tutti dovrebbero essere trattati allo stesso modo davanti alla legge».
Adesso la lotta tornerà a scuotere il Congresso nei prossimi mesi. Da una parte i Democratici che proveranno a forzare la mano con norme che estendano i principi sanciti dalla Corte Suprema, dall’altra i Repubblicani che si preparano a dare battaglia. Con un problema in più: le divisioni interne. Infatti il fronte conservatore, come dimostra anche il voto decisivo del giudice Kennedy, è tutt’altro che compatto. Il Washington Post nel suo blog di analisi politica si diverte a ipotizzare cosa accadrà sul fronte dei matrimoni gay in vista delle prossime elezioni presidenziali. I Democratici, scrive il giornale, non avranno dubbi o indecisioni: chi vorrà vincere le primarie dovrà dichiararsi a favore. Per i Repubblicani invece la scelta è un vero rompicapo: sono molti infatti — soprattutto tra i giovani e le donne — gli elettori di destra a favore delle unioni omossessuali. Ma, allo stesso tempo, soprattutto negli Stati centrali, ci sono ancora sacche di grande resistenza. L’ala più radicale del partito non ha indecisioni e ha già annunciato che presenterà una proposta di legge per modificare la decisione della Corte. E infatti il governatore del New Jersey, Chris Christie, che molti danno come
probabile candidato alla corsa repubblicana prova a corteggiare i duri e puri del suo partito: «È una decisione sbagliata. L’ennesimo esempio di una certa supremazia della giustizia sulle decisioni prese dai politici». E contro i giudici torna ad attaccare la chiesa degli Stati Uniti. L’arcivescovo di San Francisco Salvatore Cordileone usa parole durissime: «Il futuro della nostra democrazia è in pericolo, sono molto preoccupato».
Non lo sono affatto qui nel Village, dove stanno preparando il lungo week end di festeggiamenti che porteranno alla sfilata del Gay Pride di domenica. I ragazzi e le ragazze si incrociano per strada, gli occhi ancora assonnati e si salutano con il nuovo slogan: «Hi, Doma/Coma », un gioco di parole per salutare i nuovi diritti. Le battaglie da combattere e la strada ancora da camminare possono aspettare. Ora è tempo di scoprire che sapore ha la nuova libertà.


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