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Quattro uomini tra i 30 e 45 anni, cravatte strette, camicie a quadri, niente giacca. Pranzano da Friedman’s Lunch dentro il Chelsea Market nella parte bassa di New York. C’è qualcosa di insolito che attira lo sguardo: i loro smartphone sono impilati al centro della tavola. Dove una volta c’erano i fiori, c’è un totem tecnologico. Ma non è adorazione, è un esorcismo. I quattro si stanno sfidando al gioco più in voga nelle ultime settimane: si va al ristorante, si mettono i telefonini in vista e il primo che tocca il proprio per rispondere o controllare una e-mail paga il conto. Kim e i suoi tre amici sono ingegneri informatici che lavorano da Google che ha la sede lì a due passi. E la roulette è un’invenzione appunto della Silicon Valley.
Michael e Barbara sono due professori, lui insegna all’università, lei alle elementari. Vivono nel North Carolina e stanno decidendo in questi giorni dove godersi le vacanze. Discutono su tutto, tranne su una cosa: ovunque andranno la parola d’ordine è “non fare niente”. E oggi per non fare proprio niente c’è una sola strada da percorrere: staccare la spina, spegnere Internet. Con uno slogan vincente: l’arte della disconnessione è la nuova tendenza americana.

Articoli sul New York Times con acceso dibattito sui blog, una copertina della rivista Christian Science Monitor e commenti su The Atlantic e Wall Street Journal.

E la ragione è semplice. L’onda è uno tsunami: coinvolge tutti noi, che per lavorare abbiamo bisogno della tecnologia.

Persone che, in meno di una generazione, sono passate dal fascino della connessione alla voglia di fuggirne prima che sia troppo tardi. Ci sono malattie nuove che hanno costretto i medici ad aggiornare il loro vocabolario: nomophobia (la paura di non aver segnale) o l’acronimo Fomo (che sono quelli spaventati da perdersi una e-mail, un post di Facebook). Gli ultimi studi rivelano che stiamo smarrendo la capacità di guardarci negli occhi. In teoria, secondo la scienza, abbiamo bisogno di 60/70 secondi per accendere un’empatia, ma ora, a causa dei nostri dispositivi digitali, siamo scesi ad una media che va dai 30 ai 60. «Tra i giovani è ormai dato per acclarato che si può stare assieme senza guardarsi in faccia, controllando di continuo il proprio telefonino», dice Noah Zandan, un esperto di dinamiche sociali. È un danno umano, ma persino economico tanto che nascono corsi per insegnare ai manager a riprendere a fissare negli occhi i loro interlocutori. E alcune aziende offrono incentivi a chi abbandona il proprio cubicolo in ufficio per andare a incontrare i colleghi. La Intel invece obbliga i ricercatori ad alcune ore alla settimana di black out informatico per ricaricare le pile e pulire la mente. I benefici sono enormi: quando si ritorna dal viaggio dentro questo rilassante buco nero l’efficienza aumenta sino all’80%.

Come spesso accade, la cura nasce dove il problema è più acuto. Robin Sloan usa una vecchia penna Bic, scrive su un block notes e per telefonare si affida a un modello preistorico. Legge solo libri di carta e adora sfogliare i giornali. Ed è uno dei migliori strateghi della Rete, grande esperto di Twitter, new media e giornalismo digitale. Quando si mette a scrivere il suo primo libro scopre che l’assedio digitale è insopportabile, gli porta via tempo e fantasia e così decide di spegnere tutto per qualche ora al giorno. Abitudine che gli rimane anche finito il saggio: «Il mio esperimento è stato un successo: certo guardo ancora la posta, ma non mentre bevo il caffè o sto parlando con qualcuno. Mi sento come se avessi imparato qualcosa di decisivo ».

Even Sharp è il fondatore di Pinterest, la piattaforma digitale per la condivisione delle immagini. Uno che sull’essere connessi ci ha costruito una fortuna, la sua. Ma ora sente il bisogno di fermarsi. «Figuratevi se io posso essere contro la tecnologia. Non potrei vivere senza il mio smartphone, ma penso che sia giusto e salutare prenderci delle pause». E così lui e la moglie almeno un weekend al mese si concedono due giorni e mezzo senza Internet. Cercano sulla mappa dove il telefonino ha poco campo, salgono in auto e via verso la libertà.

Gli americani passano oltre otto ore e mezzo davanti a un video, tempo raddoppiato dal 2005 al 2009 e in continua ascesa. Gli adolescenti ricevono quasi cento messaggini al giorno e tutti noi buttiamo l’occhio sul nostro smartphone oltre 150 volte. «Il vero problema è che usiamo gli stessi oggetti sia per lo svago che per il lavoro.

Leggiamo una e-mail del nostro capo e un minuto dopo siamo sempre sullo stesso dispositivo a cercare il ristorante per andare a cena con gli amici: non distinguiamo più. Sono cadute le barriere che una volta separavano i vari momenti della nostra giornata e questo ci crea disturbi di attenzione e ansia», spiega Janet Sternberg, professoressa alla Fordham University di New York.

Da qui la reazione. C’è un libro che è diventato di culto per i fautori della vita “unplugged”. Si intitola The Winter of Our Disconnect, l’inverno della nostra disconnessione, e l’ha scritto due anni fa Susan Maushart. Su Amazon sta vivendo una seconda giovinezza. È la storia di una mamma «che dormiva con l’iPhone sotto il cuscino» che decide di tornare all’antico e spegnere i gadget dei suoi tre figli. «All’inizio fu un incubo, loro non mi ascoltarono neanche, troppo presi dai giochi elettronici o altro. Poi, piano piano, scoprimmo piaceri che avevamo perduto», racconta lei. E adesso sono sempre di più i genitori che seguono l’esempio. George ci prova in vacanza, in spicchi limitati di tempo: niente cellulari a tavola, niente nelle camere da letto. E anche per lui è come riaprire gli occhi: «Quando sei l’unico non connesso ti accorgi di quello che succede attorno a te. C’era gente che si portava il tablet anche nella sauna della Spa». E il mercato del divertimento si adegua. La catena di hotel Marriott è la prima grande società che offre pacchetti “Internet free” ai propri clienti. Ci sono zone dove non c’è il wifi ed è vietato l’uso dei gadget tecnologici. Oasi di pace nate dopo che un sondaggio ha rivelato che ben l’85% delle persone è infastidito dall’invasione tecnologica e che il 31% ha pensato almeno una volta, dopo l’ennesima comunicazione di lavoro, di gettare il proprio telefonino in acqua. E le cronache raccontano di un bagnino di un piccolo resort in Florida applaudito con una standing ovation dai clienti a bordo piscina dopo che aveva invitato un signore a spegnere il cellulare perché in quella zona era vietato.

Aumentano i corsi e i manuali che insegnano le regole base per disintossicarsi. Alcune al confine tra il pratico e il ridicolo: dimenticarsi il carica batterie quando si parte. Altre più realistiche, come decidere che alcune stanze della casa sono denuclearizzate, oppure che ci sono fasce orarie in cui la tecnologia riposa nei cassetti. Si spiega alla gente come staccare i vari “alert” o disattivare Twitter, Facebook, e-mail e sms lasciando invece in funzione la possibilità di ricevere chiamate per le emergenze: «Tanto le telefonate sono così in disuso che nessuno vi disturberà». E siccome Internet tutto crea, tutto distrugge e tutto ricrea sono sempre di più le applicazioni che aiutano chi vuole prendersi una pausa. I blog dal titolo The art of disconnecting in un apparente paradosso sono i più cliccati. E su Internet un’agenzia immobiliare con un forte senso dell’umorismo mette in vendita case «in zone dove il telefonino prende poco e male».

«Non penso sarà la solita moda passeggera, risponde ad un’esigenza fondamentale per la nostra vita: trovare tempo per noi. Non per fuggire in campagna ma per fare meglio quello che dobbiamo fare negli altri giorni», dice Janet Sternberg.

Al tavolo del ristorante di Manhattan un cellulare vibra. La pila rischia di crollare. I quattro incrociano gli sguardi. Un duello da Far West. Poi allungano le mani in contemporanea, di scatto, e quasi sradicano l’oggetto del desiderio, perché, nonostante la rima, è molto più difficile smettere di telefonare che di fumare.

RINUNCIARE ALLA TECNOLOGIA NON SOLO FA BENE ALLA MENTEE
 
AUMENTA ANCHE IL RENDIMENTO IN UFFICIO
 
E a proporre settimane di black out informatico spesso sono le stesse aziende della Silicon Valley. Perché
 
O IN CAMERA DA LETTO,
 
AI RAPPORTI UMANI,
 
Andare in vacanza in
 
Internet Quelli che staccanola spina
 
 
 
 
MASSIMO VINCENZI

DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK
Articoli sul
New York Times
con acceso dibattito sui blog, una copertina della rivista
Christian Science Monitor
e commenti su
The Atlantic
e
Wall Street Journal.
E la ragione è semplice. L’onda è uno tsunami: coinvolge tutti noi, che per lavorare abbiamo bisogno della tecnologia.
Persone che, in meno di una generazione, sono passate dal fascino della connessione alla voglia di fuggirne prima che sia troppo tardi. Ci sono malattie nuove che hanno costretto i medici ad aggiornare il loro vocabolario: nomophobia
(la paura di non aver segnale) o l’acronimo Fomo (che sono quelli spaventati da perdersi una e-mail, un post di Facebook). Gli ultimi studi rivelano che stiamo smarrendo la capacità di guardarci negli occhi. In teoria, secondo la scienza, abbiamo bisogno di 60/70 secondi per accendere un’empatia, ma ora, a causa dei nostri dispositivi digitali, siamo scesi ad una media che va dai 30 ai 60. «Tra i giovani è ormai dato per acclarato che si può stare assieme senza guardarsi in faccia, controllando di continuo il proprio telefonino», dice Noah Zandan, un esperto di dinamiche sociali. È un danno umano, ma persino economico tanto che nascono corsi per insegnare
ai manager a riprendere a fissare negli occhi i loro interlocutori. E alcune aziende offrono incentivi a chi abbandona il proprio cubicolo in ufficio per andare a incontrare i colleghi. La Intel invece obbliga i ricercatori ad alcune ore alla settimana di black out informatico per ricaricare le pile e pulire la mente. I benefici sono enormi: quando si ritorna dal viaggio dentro questo rilassante buco nero l’efficienza aumenta sino all’80%.
Come spesso accade, la cura nasce dove il problema è più acuto. Robin Sloan usa una vecchia penna Bic, scrive su un block notes e per telefonare si affida a un modello preistorico. Legge solo libri di carta e adora sfogliare i giornali. Ed è uno dei migliori strateghi della Rete, grande esperto di Twitter, new media e giornalismo digitale. Quando si mette a scrivere il suo primo libro scopre che l’assedio digitale è insopportabile, gli porta
via tempo e fantasia e così decide di spegnere tutto per qualche ora al giorno. Abitudine che gli rimane anche finito il saggio: «Il mio esperimento è stato un successo: certo guardo ancora la posta, ma non mentre bevo il caffè o sto parlando con qualcuno. Mi sento come se avessi imparato qualcosa di decisivo ».
Even Sharp è il fondatore di Pinterest, la piattaforma digitale per la condivisione delle immagini. Uno
che sull’essere connessi ci ha costruito una fortuna, la sua. Ma ora sente il bisogno di fermarsi. «Figuratevi se io posso essere contro la tecnologia. Non potrei vivere senza il mio smartphone, ma penso che sia giusto e salutare prenderci delle pause». E così lui e la moglie almeno un weekend al mese si concedono due giorni e mezzo senza Internet. Cercano sulla mappa dove il telefonino ha poco campo, salgono in auto e via verso la libertà.
Gli americani passano oltre otto ore e mezzo davanti a un video, tempo raddoppiato dal 2005 al 2009 e in continua ascesa. Gli adolescenti ricevono quasi cento messaggini al giorno e tutti noi buttiamo l’occhio sul nostro smartphone oltre 150 volte. «Il vero problema è che usiamo gli stessi oggetti sia per lo svago che per il lavoro.
Leggiamo una e-mail del nostro capo e un minuto dopo siamo sempre sullo stesso dispositivo a cercare il ristorante per andare a cena con gli amici: non distinguiamo più. Sono cadute le barriere che una volta separavano i vari momenti della nostra giornata e questo ci crea disturbi di attenzione e ansia», spiega Janet Sternberg, professoressa alla Fordham University di New York.
Da qui la reazione. C’è un libro che è diventato di culto per i fautori della vita “unplugged”. Si intitola
The Winter of Our Disconnect,
l’inverno della nostra disconnessione, e l’ha scritto due anni fa Susan Maushart. Su Amazon sta vivendo una seconda giovinezza. È
la storia di una mamma «che dormiva con l’iPhone sotto il cuscino» che decide di tornare all’antico e spegnere i gadget dei suoi tre figli. «All’inizio fu un incubo, loro non mi ascoltarono neanche, troppo presi dai giochi elettronici o altro. Poi, piano piano, scoprimmo piaceri che avevamo perduto», racconta lei. E adesso sono sempre di più i genitori che seguono l’esempio. George ci prova in vacanza, in spicchi limitati di tempo: niente cellulari a tavola, niente nelle camere da letto. E anche per lui è come riaprire gli occhi: «Quando sei l’unico non connesso ti accorgi di quello che succede attorno a te. C’era gente che si portava il tablet anche nella sauna della Spa». E il mercato del divertimento si adegua. La catena di hotel Marriott è la prima grande società che offre pacchetti “Internet free” ai propri
clienti. Ci sono zone dove non c’è il wifi ed è vietato l’uso dei gadget tecnologici. Oasi di pace nate dopo che un sondaggio ha rivelato che ben l’85% delle persone è infastidito dall’invasione tecnologica e che il 31% ha pensato almeno una volta, dopo l’ennesima comunicazione di lavoro, di gettare il proprio telefonino in acqua. E le cronache raccontano di un bagnino di un piccolo resort in Florida applaudito con una standing ovation dai clienti a bordo piscina dopo che aveva invitato un signore a spegnere il cellulare perché in quella zona era vietato.
Aumentano i corsi e i manuali che insegnano le regole base per disintossicarsi. Alcune al confine
tra il pratico e il ridicolo: dimenticarsi il carica batterie quando si parte. Altre più realistiche, come decidere che alcune stanze della casa sono denuclearizzate, oppure che ci sono fasce orarie in cui la tecnologia riposa nei cassetti. Si spiega alla gente come staccare i vari “alert” o disattivare Twitter, Facebook, e-mail e sms lasciando invece in funzione la possibilità di ricevere chiamate per le emergenze: «Tanto le telefonate sono così in disuso che nessuno vi disturberà». E siccome Internet tutto crea, tutto distrugge e tutto ricrea sono sempre di più le applicazioni che aiutano chi vuole prendersi una pausa. I blog dal titolo
The art of disconnecting
in un apparente paradosso sono i più cliccati. E su Internet un’agenzia immobiliare con un forte senso dell’umorismo mette in vendita case «in zone dove il
telefonino prende poco e male».
«Non penso sarà la solita moda passeggera, risponde ad un’esigenza fondamentale per la nostra vita: trovare tempo per noi. Non per fuggire in campagna ma per fare meglio quello che dobbiamo fare negli altri giorni», dice Janet Sternberg.
Al tavolo del ristorante di Manhattan un cellulare vibra. La pila rischia di crollare. I quattro incrociano gli sguardi. Un duello da Far West. Poi allungano le mani in contemporanea, di scatto, e quasi sradicano l’oggetto del desiderio, perché, nonostante la rima, è molto più difficile smettere di telefonare
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