Nei labirinti di Conrad uomo del Mistero

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I romanzi di Joseph Conrad, come Il caso (Adelphi), sono sempre giochi e interpretazioni del Mistero. Questo mistero è ora più ora meno fitto, secondo che il narratore sia divorato dai dubbi e dall’inquietudine, o la realtà sia avvolta da una nebbia biancastra, come nelle terre tropicali. Alla fine, diventa tenebra: si avvicina l’ora della notte più favorevole ai malvagi istinti dell’odio, della cupidigia e della disperazione: l’ora dei silenzi sinistri, del freddo, del ristagno: l’ora in cui i criminali compiono i loro delitti e le vittime dell’insonnia toccano il fondo; l’ora che precede i primi indizi dell’alba.
Nel Caso, il bellissimo romanzo pubblicato nel 1913, il gioco di Conrad col mistero diventa più intricato, squisito e complesso. In un passo egli afferma, quasi inebriato, che il Libro del Destino è stato tutto scritto dalla prima all’ultima pagina: in realtà, egli ignora questo libro; non conosce che casi, innumerevoli casi, piccoli fatti che si incastrano gli uni cogli altri, variazioni di variazioni, divagazioni di divagazioni, intrecci di intrecci. Non c’è un narratore solo che racconta la verità: ma la voce di un narratore senza volto e senza espressione, dentro la quale si apre la narrazione ironica, indifferente ed elusiva di Marlow e, dentro questa, la voce di altri due narratori minori; e tutte queste voci formano una specie di brusio, che non possiamo tradurre in affermazioni con un senso solo.
Questo falsetto può ricordare, alle volte, il falsetto di Henry James, il quale dedicò a Il caso una recensione entusiastica, elogiando «l’arte di moltiplicare i narratori». Il cuore delle cose viene aggirato, corteggiato, evitato dalle parole: in modo cauto e minuzioso, sempre di lato, sempre strisciando, mai di petto — con improvvise irruzioni nel centro. Il narratore avanza lentamente nella sua faticosa e dolorosa materia: segue i meandri e gli andirivieni — le ambiguità, i ritardi, le vie laterali, le strade chiuse, le apparenti menzogne. Nel Caso, il fraseggio della narrazione acquista una straordinaria grazia ironica, una leggerezza che prima non possedeva. Conrad aveva dimenticato i misteri e le tenebre? Oppure queste ironiche schermaglie attorno al tema erano la maggiore schermaglia che egli avesse mai offerto alle divinità della notte? Ma, ecco, tutto all’improvviso si capovolge. Mentre insinua una voce dentro un’altra voce, Conrad strappa all’improvviso la tela delle sue finzioni romanzesche; e racconta grandiosamente ciò che nessuno gli ha mai raccontato, ciò che egli vede soltanto con la sua meravigliosa onniscienza di narratore. Il romanziere non è, in primo luogo, l’occhio divino spalancato sopra il mondo? La mente aperta sopra tutti i pensieri? L’orecchio che ascolta tutti i rumori?

***
Il caso nasce come una incantevole pochade attorno alle avventure di uno speculatore dell’epoca, Monsieur de Barral. Sebbene non avesse nessun talento per gli affari, egli apriva sempre nuove Filiali in nome della parola magica Risparmio: accoglieva depositi, prima in una città e poi in un’altra, dovunque potesse; nell’associazione Risparmio e Indipendenza, o la Banca dell’Orbe, o nel Trust dello Scettro. Nessuno sapeva quali operazioni si svolgessero nelle diverse Filiali, tranne questa: se un tale entrava e porgeva il suo denaro allo sportello, qualcuno lo accoglieva con calore e gli dava una ricevuta. La gente andava e veniva portando sempre nuovo denaro, che avrebbe dovuto produrre enormi interessi, i quali però non venivano mai consegnati, come se un altro personaggio, nascosto dietro le quinte, li buttasse in mare.
Intanto, Monsieur de Barral faceva affari, accogliendo i progetti più fantastici: come la costruzione di un porto con i relativi magazzini sulla costa della Patagonia, miniere nel Labrador, uno stabilimento di pesci in scatola sulle rive del Rio delle Amazzoni, un principato nel Madagascar. Gli affari di de Barral erano come le botti delle Danaidi, e il folto pubblico degli investitori perdeva rapidissimamente ciò che aveva versato con tanta gioia. Ci fu un Grande Processo, durante il quale il grande Finanziere ascoltò con esagerata presunzione le vicende dei suoi disastri, affermando che, se gli avessero dato abbastanza tempo, e molto più danaro, tutto si sarebbe facilmente accomodato. Via via che i particolari grotteschi di questi incredibili affari venivano alla luce nell’aria gremita del Tribunale, correvano ondate di riso — ciascuna più forte della precedente. Alla fine, il pubblico rideva a crepapelle. Rideva il cancelliere, ridevano gli avvocati, ridevano i cronisti, e i ranghi serrati dei miseri depositari, che seguivano attenti ogni parola, ridevano lacrimando come un sol uomo.
Mentre Monsieur de Barral fu condannato a sette anni di carcere, Flora, la figlia, rimase affidata a una perversa istitutrice e a loschi parenti. Flora era l’assoluta innocenza: ignoranza, inconsapevolezza delle vie terrene, del pericolo, del dolore, dell’umiliazione, dell’amarezza, soprattutto del male. Veniva esposta, indifesa, a gente priva di ogni finezza di sentimenti e di intelligenza, incapace di comprendere la sua infelicità: gente grossolanamente curiosa, che interpretava i suoi modi ingenui come superbia e la sua silenziosa timidezza come orgoglio. Viveva tra loro, vittima passiva in tutti i suoi nervi, come se la frustassero. Pareva che il suo destino fosse quello di essere sempre circondata da un’atmosfera di tradimento e di menzogna, che soffocava ogni suo impulso e ogni aspirazione istintiva verso la confidenza e l’amore.
Il suo viso faceva pensare a un dolore tragico. Aveva un volto bianchissimo, impallidito dal terrore: gli occhi, sollevati per un momento, erano pieni di un innocente dolore e di un’inespressa minaccia, nel profondo delle pupille che si dilatavano in cerchi di un azzurro cupo, come pezzi di cielo o strisce di mare o azzurri bagliori di fuoco. Le labbra erano tizzoni ardenti. Portava un cappello di paglia bianca, di un modello grazioso, con un mazzetto di rose pallide. «Sai, disse Marlow al narratore, una fanciulla è come un tempio. Se ci passi davanti, ti domandi quali riti misteriosi si tengano lì dentro, quali preghiere, quali visioni. Il fortunato, l’amante, il marito, al quale vengono date le chiavi del santuario, non sempre sa come usarle. Per conto mio, per caso avevo avuto modo di guardare attraverso le porte socchiuse del tempio di Flora e di vedere la più triste profanazione possibile: il fulgore della gioventù che avvizziva, uno spirito non domo né ancora del tutto spento, ma come sbalordito di tanta gratuita crudeltà, in uno stato di fremente disperazione; una rassegnata avventatezza, una funerea indifferenza alle difficoltà materiali e morali della sua condizione».
All’improvviso intervenne uno dei generosi, solitari e romantici marinai cari al cuore di Conrad. Roderick Anthony era il capitano di un bellissimo vascello a vela, la Ferndale. Quando vide Flora, che aveva due volte sfiorato il suicidio, il viso bianchissimo di lei e i suoi profondi occhi azzurri lo commossero, come se fossero l’incarnazione di tutto il dolore del mondo. La vide piangere e rimase affascinato e sconvolto dalle sue lacrime. L’amore del capitano nacque da quella rara pietà, che affonda le radici in una capacità soverchiante di tenerezza: la tenerezza di uomini ardenti e conquistatori, di esuli appassionati e volontari dalla loro stirpe. Flora lo fissava con tutta la forza della sua anima, che si svegliava lentamente da un sonno avvelenato. «Egli si immerse in quegli occhi, teso e senza respiro, giù giù come un marinaio impazzito che facesse un tuffo disperato dalla cima dell’albero nel profondo mare azzurro». Ciecamente e senza capire, Flora lo ricambiò col cuore ancora intirizzito; e si lasciò sposare.
Quando Monsieur de Barral uscì dal carcere, tutto si capovolse. Il finanziere detestò con tutte le forze l’uomo che aveva amato e salvato la figlia; e questa si lasciò imprigionare dalla ossessione gelosa del padre, verso il quale provava una cieca tenerezza. Il capitano Anthony, Flora e de Barral partirono insieme sulla Ferndale, che li trasportò nelle Indie occidentali. Ma Anthony, preso in un turbine di tempestosa tenerezza, e Flora de Barral, negli abissi della sua infelicità, furono crudelmente separati. Vennero chiusi nel silenzio. Non si parlarono, non si abbracciarono: dormirono in cabine divise; il capitano Anthony era completamente solo, e si aggirava di notte per la sua nave, fissando il buio senza stelle del cielo, in preda a un incomprensibile dolore.
Quanto la parte centrale del Caso è lenta e tortuosa tanto la parte finale è rapidissima: pochissime pagine di un vertiginoso e meraviglioso deus ex machina. De Barral cerca di avvelenare il comandante Anthony: scoperto, si avvelena e muore: finalmente riuniti, Anthony e Flora si amano e per anni percorrono i mari: «Amavo ed ero amata, dice Flora a Marlow, senza preoccupazioni, in pace, senza rimorsi, senza paura. Le cose più famigliari sembravano illuminate da una nuova luce, rivestita di una leggiadria che non avrei mai sospettato potesse esistere. Il mare! Lei sa quant’è bello, forte, affascinante, quant’è amico, quant’è possente». Dopo pochi anni la Ferndale viene squarciata da un transatlantico; e il comandante Anthony si inabissa insieme al suo veliero. Poi, un ultimo, leggerissimo allegretto: il simpatico e bonario primo ufficiale della Ferndale ama e cura Flora de Barral, che, con grazia, si lascia sposare.


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