L’ULTIMO SCHIAFFO DELLA GUERRA FREDDA

by Sergio Segio | 24 Giugno 2013 14:34

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LA SOSTA in uno degli alberghi più squallidi della già tristissima periferia di Mosca, attorno all’aeroporto di Sheremetievo. L’hotel Capsule erede del noto albergo dove il Kgb di sovietica memoria «ospitava» (ma in realtà internava) i viaggiatori sgraditi, le spie da scambiare, i dissidenti da espellere. Più che un albergo sembrava un spetsbolnytsa, letteralmente gli ospedali speciali dove venivano internati i dissidenti, fatti passare per matti per non riconoscere loro la patente di oppositori politici, che non avevano diritto all’esistenza in un Paese che votava sì al 99 per cento alla lista unica del Partito. Tutto era di colore grigio in quella specie di albergo: le pareti, i letti, gli arredi delle stanze, e ovviamente le inferriate alle finestre.
Forse, se le poche notizie che si hanno su di lui sono vere, è in una tetra residenza del genere che Edward Snowden passerà la notte in attesa di volare via in un Paese più ospitale. Il romanzo che nel 1963 lanciò la fortunatissima carriera letteraria di David Cornwell, cioè John le Carré (nome d’arte sia perché un agente del MI6 britannico non poteva scrivere libri con il suo vero nome, sia per non confondersi con il fratello Rupert, ottimo giornalista dell’Independent) s’intitolava “La spia che venne dal freddo”. Due anni dopo un magnifico film di Martin Ritt con Richard Burton nel ruolo della spia consacrava definitivamente John “il Quadrato” nell’Olimpo delle spy-story.
Snowden invece viene dal caldo delle Hawaii (che peraltro è sempre stato un’isola di intrighi sin dai tempi della seconda guerra mondiale e di Pearl Harbour) e assomiglia poco al bellissimo e tenebroso Burton del 1965. Semmai se dobbiamo proprio trovargli una similitudine con personaggi di le Carré, nonostante la fidanzata ballerina lasciata senza due righe di spiegazione alle Hawaii, dovremmo guardare di più all’impiegatizio George Smiley dei successivi romanzi: una spia da ufficio, una talpa secchiona, ancorché intelligente e intuitiva.
Quei tempi così aspri e romantici insieme, così ben raccontati dall’ex agente del MI6 nei suoi romanzi, sembravano tramontati per sempre. E invece, in una vulgata internettiana non così glamour, e neppure così cruenta (il Vopo che spara alla coppia in fuga sul muro di Berlino è una delle sequenze cinematografiche più emblematiche della guerra fredda), la Storia sta tornando indietro nel tempo, in modo lento ma forse inesorabile. Perché Vladimir Putin, lo zar sempre meno democratico di tutta la Russia, vuole farla tornare indietro: per carattere o per paura. Perché ha fatto quello per tutta la sua vita di (non tanto brillante) ufficiale del Kgb, guarda caso con la Germania Est come base operativa, o perché pensa che la Russia abbia bisogno di un nemico, specie ora che l’età dell’oro della crescita economica a due cifre sta irrimediabilmente declinando.
Quando il capo della Nsa, l’agenzia nazionale per la sicurezza americana, dice in un’intervista all’Abc che Snowden ha inflitto «danni irreversibili» agli Stati
Uniti e quando il senatore Charles Schumer insinua che Putin «sapeva» della via di fuga escogitata da (o per) Snowden, è difficile non sentire nell’aria un clima di guerra fredda nuova maniera. In effetti è poco credibile che i servizi in cui Putin ha militato per quattro decenni della sua vita non fossero almeno informati che sul volo SU213 dell’Aeroflot si imbarcava un passeggero come Snowden. E che dunque ci sia puzza di intrigo nella vicenda, quale che sia la meta finale di Snowden e quale che sia il vero beneficio che la Russia può trarre dal suo tradimento.
Putin disse una volta che la fine dell’Urss è stata «la più grande tragedia della Storia». Nonostante non sia facile ricreare il buon vecchio tempo glorioso della superpotenza sovietica, bisogna dire che il presidente russo ce la sta mettendo tutta per riuscirci. Il pugno duro che sta usando all’interno, di cui il simbolo è il processo ad Aleksej Navalny in corso a Kirov sulla base di motivazioni che sono state giudicate da tutti gli esperti «surreali» come lo erano quelle dei processi contro i dissidenti brezneviani, ha chiaramente lo scopo di ricreare un clima di terrore e subordinazione al potere centrale del Cremlino, tale e quale era ai tempi dell’Urss. E l’esodo che ne sta conseguendo ricorda le due grandi fughe che seguirono a momenti storici di grande torbidezza e paura. Oggi assistiamo a quella che si può ormai definire la terza emigrazione russa. La prima fu in seguito alla presa del potere dei bolscevichi: la nobiltà e anche molti intellettuali trovarono rifugio in Occidente, soprattutto a Parigi dove divennero protagonisti della bella vita e della cultura. La seconda si produsse negli anni 70, quando l’Urss di Breznev preferì disfarsi dei dissidenti anziché tenerli rinchiusi nel Gulag: uscirono quelli come Andrej Amalrik, cioè i dissidenti politici, ma anche i Brodskij, i Solgenitsyn, i Rostropovic, una genia culturale che impoverì in modo disastroso la cultura russa.
La terza coinvolge una variegata umanità di oligarchi in disgrazia, o insicuri della loro ricchezze o pure della loro vita (tanto più dopo la morte ancora dubbia di Boris Berezovskij nella sua villa inglese nel mese di marzo). Ma anche uomini di scienza e di cultura, sempre più soffocati dalla morsa restautrice e bigotta del Cremlino. E l’ultimo emigrato di gran risonanza è stato Sergej Guriev, rispettatissimo ex rettore della scuola di economia, impaurito dell’inquisizione per i suoi rapporti con Khodorkovskij (oligarca oggi nel lager siberiano) anche lui emigrato a Parigi come i nobili e gli artisti degli anni 20. La sua assenza al Forum economico di San Pietroburgo, l’annuale appuntamento proprio nella città di Putin, dove era solito presiedere almeno una seduta, è stata un segnale di allarme per tantissimi invitati.
Proprio gli interventi degli oratori russi al Forum, a cominciare da quello del nuovo presidente della Banca centrale Elvira Nabiullina, hanno confermato che i tempi d’oro che fecero arricchire gli oligarchi e sbocciare una classe media molto putiniana, sono passati e anche per questo il presidente vuole un Paese ordinato e sotto stretto controllo. Certo è che il Putin visto all’ultimo G8, con la sua rigidità perfino fisica e non solo politica (come ha dimostrato l’atteggiamento sulla Siria), ricorda molto di più l’uomo venuto dal freddo di Dresda che la Russia uscita dal disgelo gorbacioviano.

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