L’ultimatum dei giudici che libera le coste dalle villette abusive
Abbattuti, finalmente! Gli ecomostri che stupravano la splendida Scala dei Turchi non ci sono più. Ma sotto le ruspe deve finire in macerie anche la proposta pidiellina di togliere alle Procure l’ultima parola sulle demolizioni. Senza l’ultimatum dei giudici, infatti, quegli orrendi cadaveri cementizi agrigentini sarebbero ancora lì. Un quarto di secolo dopo la denuncia dell’abuso.
Era il 1989, quando venne tirato su il primo di quei mostri ai piedi di quella parete rocciosa di un bianco sfolgorante a picco sul mare sulla costa di Realmonte, in provincia di Agrigento. La rivolta studentesca di piazza Tienanmen era repressa coi carri armati, i sovietici si ritiravano dall’Afghanistan, Erich Honecker cercava barricarsi nella sua Germania Est comunista, a palazzo Chigi c’era Giulio Andreotti e lo scudetto andava all’Inter di Matthäus.
Insomma, era tanto tempo fa. E quegli osceni edifici al di qua e al di là della Scala dei Turchi vennero costruiti, sotto il profilo formale, «quasi» lecitamente. L’albergo fu inizialmente autorizzato dal municipio di Realmonte, pazzesco ma vero, nonostante fosse su terreno demaniale. Le dieci ville sulla spiaggia (di cui tre sole costruite almeno in parte prima del blocco dei cantieri) ottennero il via nonostante lo strumento urbanistico fosse scaduto. Di più: le concessioni, in violazione del vincolo paesaggistico, furono rilasciate a se stessi, a parenti, prestanome e amici da assessori, consiglieri e tecnici del comune di Realmonte.
Tutti i giochetti registrati più volte, negli ultimi decenni, soprattutto nel Mezzogiorno. E seguiti ogni volta da dispute processuali infinite e surreali: quale valore può avere una licenza concessa contro tutte le regole e tutti i piani paesaggistici da amministrazioni locali scellerate che magari, a volte, si sono pure vendute quelle autorizzazioni in cambio di mazzette?
Anche lì a Realmonte, dove erano plateali gli sfregi alla legge e alle bellezze naturali subito denunciati dagli ambientalisti e in testa a tutti da Legambiente e dal suo leader di allora Giuseppe Arnone, le cose si sono trascinate, di ricorso in ricorso, per oltre un paio di decenni. A dispetto delle battaglie ambientaliste. Dei vincoli. Dei rifiuti alle pratiche di condono. Dell’inchiesta aperta dall’attuale questore della Camera Stefano Dambruoso che era al primo incarico in magistratura e fece ammanettare un po’ di amministratori e tecnici.
Venti anni di ricorsi e contro-ricorsi, di perizie e contro-perizie, di fotocopie a quintali, di avvocati decisi ad attaccarsi al più minuscolo cavillo per tirarla in lungo. E mai un’ordinanza comunale di demolizione. Il paese è piccolo, pochi voti possono costare la rielezione, perché mai un sindaco dovrebbe cercare rogne mettendosi contro un po’ di compaesani? E tutto ciò nonostante la richiesta all’Unesco, qualche tempo fa, di inserire la Scala dei Turchi tra i beni tutelati in quanto patrimonio dell’umanità! Una pretesa che, con quegli osceni scheletri cementizi di mezzo, era surreale e suicida…
Finché l’anno scorso, finalmente, dopo una cena dalle parti di Realmonte del procuratore Renato Di Natale, scandalizzato dalla scoperta («Nessuno in ventiquattro anni si era preoccupato di capire perché gli ecomostri fossero ancora lì!») decise di muoversi la magistratura agrigentina. Notificando a brutto muso al sindaco Piero Puccio, per mano del procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e del sostituto Antonella Gandolfi, un’ingiunzione a demolire immediatamente quei mostri di calcestruzzo.
«Immediatamente» coi tempi italiani, si capisce. Fatto sta che dopo nuovi ricorsi al Tar (respinti) e al Consiglio di giustizia amministrativa (respinti) sono arrivate finalmente le ruspe. Buttando giù giorni fa lo scheletro dell’albergo e tra ieri e oggi gli scheletri delle ville. Dopo di che, se non ci vorranno altri vent’anni per rimuovere le macerie, la Scala dei Turchi tornerà ad essere quella meraviglia naturale che i più giovani non hanno mai potuto vedere nella sua abbagliante bellezza.
Proprio il caso che abbiamo raccontato dimostra quanto siano faticose queste battaglie per la legalità. E quanto sia insensato, quindi, il disegno di legge firmato dal senatore pidiellino campano Ciro Falanga che vorrebbe togliere alle Procure la competenza in materia di esecuzione delle demolizioni. Proposta che arriva dopo 18 tentativi a partire dal 2010, tutti e 18 respinti, di far passare un nuovo condono edilizio almeno per la Campania, la regione storicamente più devastata dal cemento fuorilegge. Si pensi a Ischia: 62.000 abitanti, 28.000 abusi.
Davanti alle proteste degli ambientalisti e di una parte della sinistra, che col presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza accusano Falanga di volere «legare le mani a chi, in un Paese devastato dal mattone illegale, ha provveduto fino a oggi alle demolizioni», il senatore berlusconiano ha risposto che si tratta solo di «dare ai cittadini, destinatari di tali provvedimenti, la possibilità di godere di tutte le garanzie del procedimento amministrativo». E si è avventurato a sostenere che «chi s’oppone negando tale sistema di garanzie, si assume tutte le responsabilità di eventuali tragici accadimenti ed il rischio di vite umane». Come se gli abusi fossero fatti solo da poveracci obbligati da chissà chi a violare le regole e costruirsi illegalmente la prima casa. Cosa che, come dimostrano il caso di Realmonte, quello dell’hotel Alimuri a Vico Equense e tanti altri, è assolutamente falsa.
Di più, spiega il dossier «Ecomafia 2013» di Legambiente sui comuni capoluoghi di provincia che «in un decennio, dal 2000 al 2011, il rapporto tra ordinanze e abbattimenti è solo del 10,6%». E già c’è da leccarsi le dita rispetto al passato e ai piccoli paesi dove il rapporto fra le amministrazioni e i cittadini è più diretto ma anche più vischioso. Basti dire negli anni 90 in Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, che da sole coprono il 37% degli abusi, le ruspe entrarono in azione contro gli edifici abusivi «non sanabili» e colpiti da ordine di demolizione, soltanto nello 0,97% dei casi. E vogliamo lasciare la responsabilità ai comuni? Ma dai…
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