by Sergio Segio | 11 Giugno 2013 6:50
ROMA — Massimo D’Alema ormai si tiene ben lontano dalle beghe del Pd. Va alle riunioni di Direzione sempre più di rado e non interviene più da lunga data. Con una buona dose di civetteria sostiene di preferire altre occupazioni: la Fondazione Italianieuropei, i convegni dei socialisti sparsi per il mondo, la vendita delle prime bottiglie del «suo» vino. Ma in realtà, l’ex presidente del Consiglio continua a tenere un occhio attento sul Partito democratico. E ultimamente lo ha messo in allarme l’atteggiamento del fronte anti-renziano, che sta tentando di cambiare regole, statuto, norme per sbarrare la strada al sindaco di Firenze. «Non inventiamoci problemi inesistenti, non mettiamoci alla ricerca del cavillo: il nostro elettorato non ci capirebbe, e avrebbe ragione».
Perché impazzire per riscrivere il codice interno del Pd al solo fine di stabilire che da ora in poi segretario e candidato premier non devono coincidere? Già, perché? La domanda è retorica e, ovviamente, D’Alema ha già la risposta: è il modo per dissuadere Renzi e convincerlo a lasciar perdere la corsa alla leadership del partito. Ma non funziona così. L’ex premier in questo si è convinto che avesse ragione Renzi: così facendo si «allontanano i potenziali elettori». E c’è un altro argomento, che riguarda sempre questa materia, che infastidisce non poco l’ex presidente del Consiglio. Si sta parlando dei tentativi dei bersaniani (che ormai rappresentano una corrente armata che si riunisce con regolarità con il suo leader) di imporre delle regole rigide per l’elezione del segretario. «La platea che deve eleggere il nuovo leader — è invece l’opinione di D’Alema — deve essere la più larga possibile e il congresso deve essere aperto». Non a caso Enzo Amendola, astro nascente del dalemismo, neo deputato e neo componente della segreteria di Guglielmo Epifani, nella riunione di ieri del nuovo organismo dirigente ha posto dei problemi proprio su questo fronte.
Ciò non significa, ovviamente, che D’Alema abbia già sposato la candidatura alla segreteria di Renzi. Però l’ex premier si rende conto che la vittoria del Partito democratico non deve far dimenticare le difficoltà del Pd. E in questo senso sarebbe esiziale dare l’impressione che a Largo del Nazareno si pensi solo ad arroccarsi e a cercare di far passare l’ennesimo candidato di apparato.
La strada di Renzi non è spianata. Anche se ufficialmente lui nega, Nicola Zingaretti è in pista. Il presidente della regione Lazio ieri ha fatto delle affermazioni che la dicono lunga sulle sue intenzioni future: «Ci vuole una rottamazione democratica dei dirigenti nazionali del partito». Insomma, non è escluso che a settembre Zingaretti possa presentare la sua candidatura. Il suo amico e sponsor di una vita Goffredo Bettini dice di tifare per Renzi, ma sono in molti a credere che in realtà stia pensando di fare con Zingaretti quello che ha fatto con Marino a Roma.
In attesa di capire come finirà la partita della segreteria nel Pd si analizza il voto amministrativo. Non tutti al Partito democratico sembrano condividere le convinzioni e l’euforia elettorale del patto di sindacato interno. Al di là delle dichiarazioni rilasciate davanti ai taccuini dei cronisti e alle telecamere dei Tg, c’è una fetta del Pd che, pur essendo (ma potrebbe essere altrimenti?) contenta del risultato, valuta i pro e i contro di questo voto amministrativo. Che viene ritenuto da alcuni renziani «destabilizzante» per il governo, perché mette Alfano in difficoltà, vista la portata della sconfitta del Pdl. E le dichiarazioni del vicepremier su Letta sembrano dare ragione a questa lettura.
Ma c’è un altro aspetto del voto su cui, secondo Renzi e i suoi, il Pd dovrebbe «interrogarsi» perché «l’astensionismo è il vero vincitore di queste elezioni». Però la convinzione (e la paura) del sindaco è che anche questa volta il partito farà finta di niente.
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