L’Iran al voto
TEHERAN. Alleanza, alleanza, scandiscono migliaia di ragazzi e ragazze nello stadio Shirudi salutando il candidato moderato Hassan Rohani. Intendono l’alleanza tra moderati e riformatori, in termini occidentali si direbbe tra centro e sinistra: quell’unione di forze tra Khatami e Rafsanjani che non si fece quando Khatami fu eletto presidente e che oggi tutti considerano un’occasione perduta, anche quelli che allora erano contrari. Dopo quel fallimento, dopo otto anni di bombastiche ma infruttuose sfide all’Occidente, dopo la repressione brutale che dal 2009 paralizza l’opposizione, in questi giovani sta rinascendo all’improvviso la voglia di lottare. Sembra di assistere a un replay: questi sono, quasi non si crede ai propri occhi, i figli della generazione che sedici anni fa elesse Khatami.
Stessa voglia di sperare, stessa massiccia presenza femminile, stessa classe media scolarizzata, perfino le stesse canzoni — un misto di patriottismo fraternità orgoglio nazionale e buoni sentimenti, e in più, rispetto a sedici anni fa, tanta tanta voglia di normalità.
La voglia di lottare comincia col sostegno a un candidato, Rohani, che non sarà certo l’ideale per questi giovani, ma tra gli otto ammessi dal Consiglio dei Guardiani è il più liberale e il più credibile (Hashemi Rafsanjani, a cui Rohani è collegato, è stato invece squalificato dal Consiglio dei Guardiani e ieri ha dato il suo sostegno a Rohani). Fino a ieri sembrava che le elezioni presidenziali non riguardassero nessuno in Iran. «È la prima volta che pronuncio la parola», mi aveva detto una settimana fa con sdegno un regista. E Shirin Ebadi tuona da ogni podio europeo: come si fa a parlare di elezioni, cioè di una scelta, se qualcun altro ha già scelto per voi?
Il Consiglio dei Guardiani ha ammesso infatti solo i candidati dai quali pensa che non possa scaturire il benché minimo pericolo per il regime.
Rohani è una persona tranquilla, addirittura un mullah, anzi il solo mullah tra i candidati e la sua ammissione è sembrata un gesto di consolazione dopo l’esclusione clamorosa dell’ex presidente Rafsanjani. Ma anche Moussavi era un persona tranquilla fino a che masse di giovani, che presto sarebbero diventati l'”Onda verde”, non si mobilitarono per lui nel 2009. Per il regime l’Onda Verde è stata un pericolo mortale: per la prima volta nella storia della Repubblica islamica non si chiedevano più solo riforme, ma la fine del sistema teocratico, che secondo tanti aveva perduto il diritto di esistere perché aveva calpestato la volontà popolare.
Negli ultimi anni a Teheran un’infinita tristezza e il disincanto dalla politica apparivano come i soli ingredienti della rassegnazione generale di una società sopraffatta dall’altalena della storia e oberata dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza. Contro la volontà del Leader non si può niente, ti dicevano. Ma la coscienza democratica resta forte nonostante tutto, è come un fiume carsico che quando meno te lo aspetti si apre una breccia.
Hezb-e baad, il partito del vento, dicono gli iraniani, ed è il partito di chi decide di votare all’ultimo momento, cambiando i disegni dei despoti. Come nel 1997, quando elessero Khatami. O nel 2009, quando però il loro voto fu neutralizzato. Saranno in tanti avotare anche questa volta? È improbabile. I giovani allo stadio Shirudi non rappresentano (ancora) la maggioranza dei loro coetanei, inclini piuttosto a non votare mai più. Le recenti parole di Khamenei hanno ulteriormente dissuaso gli indecisi: «Ogni voto, a qualsiasi candidato vada, è un voto per la Repubblica islamica e una prova di fiducia di come funzionano le elezioni in Iran. I nostri nemici vogliono trasformare il voto in una minaccia contro il sistema islamico», ha detto il Leader. Per Khamenei una bassa affluenza alle urne è sicuramente il male minore.
«Dopo quattro anni di silenzio ritroviamo la voce» dice sotto gli applausi un conduttore televisivo da tempo silenziato dal regime che presenta il comizio di Rohani. Sulle gradinate riservate alle donne è tutto uno scambiarsi di cenni di saluto, sorrisi, richiami: ah, ci siete anche voi, fantastico. Moderazione, riconciliazione, unità sono le parole d’ordine. Se qualcuno pronuncia parole violente non è uno di noi, dice Rohani. Una settimana fa a un suo comizio il pubblico cominciò a scandire il nome di Moussavi e il regime reagì immediatamente, arrestando diversi collaboratori di Rohani. Oggi i nomi scanditi sono solo quelli di Khatami e Rafsanjani e, quando alcuni chiedono la liberazione dei prigionieri politici, Rohani risponde: «In un paese moderato dove l’estremismo è bandito e dove c’è giustizia non ci saranno prigionieri politici: è questo lo Stato che io voglio creare col vostro aiuto. Se farò degli errori non mi nasconderò dietro la religione o dietro i martiri. Solo così potremo ricostituire la nostra nazione, salvare l’economia, ridare stabilità e serenità al paese, restituire dignità alle donne». L’entusiasmo è alle stelle. Un famoso cantante, Moktabad, intona una canzone e le ragazze del servizio d’ordine (serie, vestite di tunichette corte senza esagerare e truccate con discrezione) raccomandano alle coetanee di fare attenzione che i capelli non fuoriescano dal foulard: «per non dare adito alla propaganda negativa». I giovani iraniani oggi sono moderati, sanno che se mai potranno vivere in un paese migliore sarà cambiando gradualmente — non rovesciando — il regime.
Negli ultimi due giorni, Rohani era salito in cima ai sondaggi, seguito a ruota dall’altro candidato del campo riformatore, Mohammad Reza Aref, ex vicepresidente sotto Khatami. Aref ieri si è ritirato, per non disperdere il voto moderato, e anche Khatami ha lanciato un appello per il voto a Rohani. Tra i conservatori il più gettonato è Qalibaf, sindaco di Teheran, mentre Said Jalili, che è considerato il candidato su cui punta il Leader supremo, è in fondo alla scala dei consensi. Khamenei scommette sulla intransigenza di Jalili come negoziatore del dossier nucleare, non a caso lo slogan di Jalili è: resistenza resistenza resistenza. Non è detto però, secondo molti diplomatici a Teheran, che Jalili rimanga fino all’ultimo il preferito del Leader, visto che anche gli altri candidati conservatori hanno criticato le sue posizioni sul negoziato nucleare. «Sembra che dia lezioni di filosofia invece di negoziare» ha detto in televisione Velayati. Solo i diplomatici russi sono convinti che quando il Leader punta su un cavallo non cambia facilmente parere e un fedelissimo del Leader me lo conferma: Khamenei è persuaso, mi spiega, che qualsiasi minimo cedimento danneggerebbe la posizione negoziale iraniana: «Solo quando gli americani non spereranno più nei complotti e nella guerra militare e economica sarà possibile trattare sulla base della logica». «Logica» significa accettare il diritto degli iraniani ad arricchire l’uranio senza restrizioni. Perché Jalili prevalga gli altri candidati conservatori si dovrebbero però fare da parte e nessuno, tranne Haddad Adel che è il genero del Leader, si è ritirato finora. Una delle due principali associazioni di chierici a Qom ha annunciato che sosterrà Velayati e Press Tv dà oggi al primo posto Qalibaf, considerato, tra i conservatori, il più indipendente dal Leader supremo.
Oggi votare è un dovere, dice Rohani ai giovani che l’applaudono e a conclusione del comizio chiede loro di convincere ognuno dieci compagni ad andare alle urne. Ma tanti, fuori dello stadio, si chiedono: votare, e perché? Che cosa possono cambiare le elezioni?
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