Libano, il contagio della guerra

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DAMASCO — Non c’è limite alla velocità e alla paura per chi passa sul vialone davanti ai cancelli del campo rifugiati. I centocinquantamila palestinesi che vivevano in questi due chilometri quadrati sono quasi tutti fuggiti: i materassi, le sedie, i tavoli, le pentole, le coperte caricati sui tetti delle auto. L’area a sud del centro di Damasco era stata attaccata cinque mesi fa dai fondamentalisti di Jabhat al Nusra, sunniti contro sunniti, ribelli anti-Assad contro una comunità che aveva provato a rimanere neutrale.
Adesso le famiglie stanno cominciando a tornare tra i palazzi anneriti dalle granate anche se sui tetti sono rimasti i cecchini. I soldati del regime controllano da fuori, dalle postazioni protette dai sacchi di sabbia. Come quelle centrate all’alba di ieri da un’autobomba a pochi chilometri da qui, obiettivo una caserma della polizia.
Nella capitale siriana il Fronte popolare per la liberazione della Palestina-Comando Generale è rimasto fedele al presidente Bashar, che ne ospita i capi e sovvenziona le operazioni. Hamas ha scelto di andarsene e di stare con i rivoltosi. Allontanarsi da Assad ha significato spaccare anche l’alleanza con Hezbollah, al punto che il movimento libanese accusa il gruppo di aver trasmesso ai ribelli le tecniche di battaglia imparate per combattere i soldati israeliani.
I guerriglieri sciiti che tornano dal fronte di Qusayr raccontano di aver dovuto affrontare tattiche «familiari in modo irritante»: «È evidente che i palestinesi — spiega il miliziano Jawad al quotidiano libanese Daily Star — hanno deciso di offrire i trucchi che gli avevamo insegnato noi». L’offensiva contro la città a pochi chilometri dal confine libanese va avanti da tredici giorni. L’esercito di Assad è affiancato dalle truppe di Hezbollah, vuole riprendere il controllo della zona da dove passano le armi e i rifornimenti per le forze anti-regime.
La Croce Rossa chiede di poter entrare a Qusayr per aiutare i feriti, le Nazioni Uniti parlano di 1.500 persone che hanno bisogno di cure urgenti. Da Damasco Walid Muallem, ministro degli Esteri, rinvia l’accesso umanitario a quando «le operazioni militari saranno finite». I profughi che riescono a scappare in Libano raccontano di almeno diecimila uomini di Hezbollah impegnati negli scontri. Le schiere si muovono dalla stessa valle libanese dove loro cercano rifugio.
La Bekaa è diventata un’altra prima linea nella guerra siriana. Nella notte tra sabato e domenica i ribelli hanno colpito i villaggi sciiti in Libano, diciotto esplosioni tra razzi e colpi di mortaio. I bersagli sono Hermel, Baalbek, le aree dove le bandiere giallo-verdi di Hebzollah sventolano su tutte le case.
I rivoltosi siriani sconfinano per portare la battaglia di Qusayr dall’altra parte, ripercorrono al contrario le strade seguite dai soldati agli ordini dello sceicco Hassan Nasrallah. Negli scontri di ieri sarebbero morti — calcola Al Mayadeen, televisione vicina agli sciiti e al regime di Damasco — diciassette miliziani di Jabhat Al Nusra, un solo caduto per Hezbollah.
Un gruppo di religiosi sunniti proclama da Beirut una fatwa che incita ad aiutare i ribelli anti-Assad «con le parole, i soldi, le medicine, le armi, i combattenti». È la risposta al coinvolgimento nel conflitto voluto da Nasrallah. Le Nazioni Unite avvertono che la guerra civile siriana è già «una crisi regionale, internazionale».
La commissione d’inchiesta sugli abusi commessi nei venticinque mesi di violenze presenta domani il rapporto. Il presidente Paulo Pinhero definisce il dossier «terrificante». Carla Del Ponte, ex procuratrice generale al Tribunale penale internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia, denuncia «atrocità di una crudeltà inconcepibile, come ne ho mai viste, neppure in Bosnia».
Davide Frattini


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