Letta, doppia mossa per blindarsi

by Sergio Segio | 11 Giugno 2013 6:33

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ROMA — Del suo governo di «necessità», Enrico Letta prova a far virtù, cercando di avviluppare nella stessa ragnatela alleati e avversari, così da blindarsi a Palazzo Chigi. Perciò il premier si muove su un doppio registro: per un verso si compiace del risultato amministrativo, come a volersi intestare una parte del successo del Pd, che pure a Roma ha vinto con chi (Marino) non gli ha nemmeno votato la fiducia; per l’altro si affretta a dichiarare che «il voto rafforza lo schema delle larghe intese», in modo da tenere stretto a sé il Cavaliere, dal quale nei giorni scorsi si era affrancato, disconoscendone di fatto la paternità nella genesi del suo gabinetto.
L’abilità manovriera non fa difetto a Letta, se non fosse che la politica (dunque anche il governo) balla sul ponte del Titanic, e il drammatico dato dell’astensionismo testimonia la crisi di sistema, confermando le ragioni che hanno portato il presidente di Confindustria a paventare i «rischi sulla tenuta della coesione sociale del Paese». Ecco perché il premier ha annunciato un «piano nazionale per combattere la disoccupazione giovanile», e ha detto di attendersi dal prossimo vertice europeo «fatti concreti». È un modo per puntellare la situazione, mentre nel governo si è già palesato il nervosismo dei «non allineati», ministri cioè che non sono nè del Pd nè del Pdl.
Se è vero che il destino di Letta è legato ai risultati, non sarà il monito lanciato da Alfano con l’intervista al Foglio a destabilizzarlo. Semmai l’avvertimento del segretario pdl al suo premier, quell’invito a «non discolparsi» dell’intesa con Berlusconi, mira a riequilibrare le quote del pacchetto azionario di governo. Nè il Cavaliere — a cui Letta ha voluto togliere la «golden share» — ha interesse oggi a far saltare il banco: per via delle sue vicissitudini giudiziarie più che per il disastroso risultato del suo partito alle Amministrative. Resta da capire come mai il centrodestra, che è dato in testa in tutti i sondaggi, ha perso ieri in tutti i ballottaggi e rischia il bagno anche in Sicilia.
La tesi che si è fatta strada nel Pdl — che il tonfo sia dovuto all’assenza del Cavaliere dalla competizione elettorale — è semplicistica e adulatoria, se è vero che in un partito le responsabilità ricadono sul leader, oltre che sul gruppo dirigente. E il leader sta assistendo allo stesso risultato del ’93, ma con un trend rovesciato: anche allora l’embrione di quello che sarebbe diventato il Polo perse dappertutto, ma la destra e la Lega erano in forte ascesa, mentre adesso si sono (quasi) del tutto azzerate. Così l’opzione che riprende a circolare nel Pdl per un cambio radicale della struttura di partito — con un ritorno a Forza Italia e a un movimento che separi il destino di Berlusconi da una «bad company» — appare velleitaria, perché ruoterebbe attorno a un capo che non è più nella sua parabola ascendente. E soprattutto non ha (quasi) più alleati.
Non è quindi all’orizzonte un’imminente crisi di governo. Anzi, Tajani, che è esponente di spicco del Pdl, nelle sue vesti di vicepresidente della Commissione europea scommette sulla durata di Letta almeno fino al semestre di presidenza italiana che inizierà nel luglio del prossimo anno: «Sarebbe un errore farlo cadere», ha detto, magari legando l’auspicio a una riconferma dell’incarico a Bruxelles.
È comunque un fatto che il premier stia utilizzando questa fase statica per cautelarsi, a destra come a sinistra: giovandosi del voto di ieri, infatti, punta a essere «il volto del governo» per il Pd, dove Renzi è visto come «il volto del cambiamento». E non è un caso se il sindaco di Firenze non si è ancora candidato alla segreteria del partito: non è (solo) una questione di regole, vuole attendere per capire se l’esecutivo spiccherà il volo o si impantanerà nella gestione minuta della crisi in cui versa il Paese. Dei due ne rimarrà uno solo, ma se Letta si tiene stretto Renzi, fino a promettergli un sostegno nella corsa alla segreteria dei Democratici, è per impedire che nel loro rapporto si infilino altri attori del Pd: niente nemici in mezzo, insomma.
Che poi è lo stesso schema di Alfano con Berlusconi, sebbene il vicepremier abbia un altro problema, che gli è stato posto da alcuni dirigenti del Pdl: un conto è l’intesa con Letta, altra cosa è la necessità di intestarsi iniziative di governo che siano condivise dal partito di cui è segretario. Altrimenti c’è il rischio di restare invischiati nella ragnatela altrui, e di non dividere i profitti di Palazzo Chigi ma solo le perdite. È il gioco della politica, e si incrocia con le aspettative del Paese, che ieri ha mandato un altro pesante messaggio.

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