L’anarchico al Pontelungo

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Il 14 agosto 1874 il Diavolo passava lo Spluga vestito da prete. Un pretone imponente, alto due metri, corpulento ma curvo, appoggiato a un bastone, aggrappato a una innocente cesta di uova, il volto svisato da grossi occhiali verdi. Per camuffarsi meglio, Michail Bakunin aveva sacrificato perfino la sua iconica barbabandiera, resa celebre nelle cantine ribelli di tutta Europa, ma anche nei commissariati di polizia, da una celebre fotografia di Nadar.
Con lui fuggiva dall’Italia anche la breve estate dell’anarchia, che avrebbe vissuto solo due ritorni di fiamma, il regicidio di Gaetano Bresci del 1900 e la “settimana rossa” del 1914. Riparando in Svizzera dopo il desolante fallimento dell’insurrezione di Bologna, il Marx dei libertari lasciava dietro di sé decine di compagni nelle regie galere e un sogno che qualcuno si incaricò di riscrivere in farsa. Fu Riccardo Bacchelli a calare sul volto dell’aristocratico russo ribelle la maschera tragicomica dell’idealista ma grottesco e inconcludente colosso, «lo sguardo azzurro come l’illusione e trasparente come la logica assurda ». Lo fece nel suo Il diavolo al Pontelungo, che uscì in anni imbarazzanti (era il 1927, Mussolini era già saldo al potere), che irritò Gramsci per il suo «gesuitismo» e scatenò la reazione indignata degli ultimi adepti del gran ribelle, compreso il nipote Luigi Bakunin, fino a costringere lo scrittore bolognese a replicare (ma sul
Times, perché il romanzo era piaciuto al Duce, ma non era il caso di dibattere di anarchia sui giornali dell’Italia fascista) che lui, al suo personaggio, non aveva aggiunto nulla, che lo aveva «trovato bell’e fatto», leggendo «fino alla noia» i suoi testi.
Chi vuole, può rifare l’esperienza. Eleuthera, casa editrice libertaria, raccoglie tutti gli scritti “italiani” di Bakunin, in un volumetto (Viaggio in Italia, a cura di Lorenzo Pezzica, pagg. 143, euro 12), impreziosito dai graziosi disegni coevi della cognata Natalya che, francamente, sembrano portare un po’ d’acqua al mulino del suo anti-biografo bolognese: il rivoluzionario passeggia con il bastone e un bizzarro ombrellino parasole, poco spaventoso e molto borghese. Ma quella era la maschera che il nostro voleva darsi quando, fuggito rocambolescamente dalla prigionia siberiana, nel 1864 iniziò da una Torino «fredda come la Siberia» il suo primo soggiorno di tre anni nella Penisola, per raggiungere poi Firenze, dove chiese agli espatriati russi di sistemarlo «a pensione presso qualche buona famiglia borghese», e infine Napoli dove trovò, a Mergellina, una camera con vista su golfo e Vesuvio, gioia della giovanissima e amatissima moglie Antonia, «una sciocchina che non condivide minimamente le mie idee» ma che forse, sospetta il Carr, già condivideva calorosamente quelle dell’anarchico Gambuzzi che diventò poi il suo secondo marito.
Disinteressato alla veduta da cartolina, chiuso nel tinello, unica indulgenza l’adorato caffè, il già mitizzato “Bakunìn”, terrore dei re e dei tiranni, scriveva, furibondamente, lettere e pamphlet su questa Italia di cui si era «innamorato », di cui balbettava qualche parola significativa, pazienza, fiasco, a poco a poco, questa Italia così promettente per la rivoluzione, con la sua plebe contadina, quel proletariato cencioso di cui Marx diffidava, massa analfabeta cafona e oppressa ma «dotata di un’intelligenza straordinaria», eppure cocciutamente immobile e indifferente: «Il colera a Napoli si espande più della democrazia».
Scriveva, il temibile ateo venuto dal Nord, cose in fondo meno incendiarie di quel che ci si aspetterebbe, analisi forse fondate sul poco, ma che a leggerle oggi suonano singolarmente familiari e quasi attuali: si parla di caste, di burocrazia, si denuncia «il peso delle imposte» che «serve per foraggiare la consorteria», cioè una classe trasversale parassita e camaleontica di preti, banchieri, industriali unita da interessi più che da ideologie.
Un’Italia «in condizione triste e pericolosa», paese di 25 milioni di abitanti appena unificato da un Risorgimento che rimpiazzò una rivoluzione, dove lo scontento sociale già sfociava nel proletar- reazionario brigantaggio filoborbonico, dove gli ardori sovversivi di Mazzini e Garibaldi erano riusciti soltanto a «dare un regno ai Savoia».
A dir la verità, era proprio grazie alla rete mazziniana che Bakunin poteva muoversi e far proseliti in Italia. E non aveva mancato neppure di far devoto pellegrinaggio a Caprera per abbracciare lo stanco Garibaldi, di cui anche tra i ghiacci della prigionia aveva seguito con ardore l’impresa dei Mille. Ma i due eroi italiani non erano al corrente che Bakunin, a Londra, aveva concordato con Marx, ancora suo alleato internazionalista, di venire in Italia proprio per trascinare sul terreno rivoluzionario i repubblicani considerati ormai compromessi con la monarchia. Che fosse riuscito, nei tre anni di frenetica attività confabulatoria e di fondazioni di «fratellanze», a strappare adepti al Mazzini «cuore generoso, ma animo da cristiano, apostolo pontefice, non vero rivoluzionario », e a Garibaldi «esempio di coraggio » ma «complice di un’incestuosa alleanza» con la monarchia, è cosa che convinse più lui che gli storici.
Fatto sta che dieci anni dopo un Bakunin ancora più stanco e sconfitto pensa di nuovo all’Italia come terra della riscossa: forse la sua ultima, o l’unica. Lasciati gli ozi di Lugano, dove ha dilapidato nel falansterio hippy della villa Baronata il patrimonio del ricco anarchico Carlo Cafiero, l’eroe della rivoluzione sociale fa rotta su Bologna. Segue un carico di dinamite nascosto sotto le gonne di Olimpia Cafiero. Tutto gli dice che questa è la volta buona. La Romagna, terra garibaldina e repubblicana, di gente dalla testa calda come l’Errico Malatesta, nomen omen, è per lui l’unica patria della redenzione in un’Europa che, sconfitta la Comune di Parigi, si ostina a restare sciaguratamente tranquilla. Gli giungono dai compagni Abdon Negri e Andrea Costa detto «il biondino» notizie incoraggianti di schiere pronte all’insurrezione. Esita. Parte. Sotto le mentite spoglie del ricco rentier Tamburini ecco, il diavolo è al Pontelungo, al seguito della bomba proletaria, in mano la fiaccola dell’anarchia, determinato a issare la bandiera rossa e nera su San Petronio. Canterebbe Francesco Guccini, bardo bolognese: «La storia ci racconta come finì la corsa». Due o trecento, male armati e litigiosi, subito arrestati e trascinati in gattabuia tra gli sberleffi della plebe irredenta che li apostrofa «esercito della fame». Il solito Bacchelli infierirà: «Credevano essi che la tempesta stesse per riprendere, era invece la fine, e il fortunale gettava a spiaggia i rottami».
Davvero, solo rottami? La sapiente riscrittura bacchelliana del «pallone di carta» anarchico ha forse condizionato l’opinione comune, se non quella degli storici, sul valore di quella fiammata libertaria di fine secolo. Andrea Costa, uscito di galera, con la dolorosa «lettera agli amici di Romagna» scelse la via legalitaria e indicò la strada per il Parlamento. Il socialismo italiano, passando per la febbre anarchica, si emancipava dal mazzinianesimo. Il Diavolo, per l’eterogenesi dei fini, aveva fabbricato almeno un po’ del ponte (lungo?) tra il Risorgimento e il movimento operaio organizzato. Ma lui, il «solidarista assoluto », l’incendiario che non lanciò mai una bomba, vestito da prete, a pochi mesi dalla morte, amareggiato e deluso, non lo sapeva, e sicuramente non lo voleva.
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IL LIBRO
Viaggio in Italia di Michail Bakunin a cura di Lorenzo Pezzica (Elètheura, pagg. 144 euro 12)


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