La fine della politica espansionistica Usa altro ostacolo contro la ripresa europea

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LA LUNGA galoppata dell’economia americana verso il traguardo della ripresa economica perderà presto la frusta del danaro facile perché la Fed, il Tesoro, la Casa Bianca temono che il cavallo Usa scoppi. È bastato che il governatore della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, modificasse lievissimamente quello che aveva detto il primo maggio, perché Wall Street si avvitasse e gli effetti si ripercuotessero su tutti i mercati del mondo.

A COMINCIARE dalla Cina che comincia a conoscere il morso, ad essa finora sconosciuto, del “credit crunch”, delle restrizioni ai prestiti.
Le parole di Bernanke, il governatore, sono state talmente sfumate e indirette da far capire che il mondo della finanza americana e quello internazionale ci hanno letto quello che in realtà già sapevano. In maggio, Bernanke, che come tutti i governatori parla in maniera volutamente sibillina, aveva detto: «Si continuano a vedere rischi di flessione nella previsione economica». Mercoledì, appena 50 giorni dopo ha detto: «Si vede una diminuzione nel rischio di flessione per l’economia e per il mercato del lavoro».
Tanto è bastato, nella contorta formula, per far leggere agli sciamani della finanza che devono interpretare i fondi di caffè e gestire fondi di investimento l’intenzione di stringere un poco quei rubinetti della liquidità che il governo americano aprì nella disperazione del settembre 2008, quando le torri di cristallo delle banche si sbriciolavano e l’intero sistema creditizio americano era in picchiata. Da allora, con i primi 700 miliardi strappati da George Bush a un Parlamento insieme terrorizzato e recalcitrante, il totale dei dollari pompati dalla Fed nelle vene dell’economia Usa ha largamente oltrepassato i tre trilioni di dollari, tre mila miliardi, e i risultati si sono visti.
La disoccupazione è scesa al 7,6 per cento. Le tre sorelle di Detroit, le case automobilistiche hanno ricominciato a vendere. Il mercato immobiliare, incendiato da mutui trentennali anche sotto il 3% di tasso effettivo, ha ripreso fuoco arrivando ad aumenti oltre il 10% del valore reale della case in un anno nelle città principali mentre gli indici principali di Borsa riprendevano, o oltrepassavano, le soglie raggiunte prima del grande crack. Sempre ricordando che nella Borsa americana riposano inquieti fondi pensioni, risparmi, piccoli investimenti famigliari di un cittadino su tre.
La formula keynesiana della mano pubblica, sciolta dalle manette di quel debito nazionale che si era deciso, o finto, di ignorare, ha funzionato anche troppo bene. Nel mercato immobiliare, sempre il primo motore dell’economia reale americana, come in quello finanziario, si era ricominciato a usare quella parola terrorizzante dimenticata per cinque anni: la “bolla”. Il leggendario cavallo dell’economia, che secondo l’antico proverbio inglese “puoi condurre all’acqua, ma non puoi costringere a bere” non soltanto aveva bevuto, ma si era gonfiato lanciandosi nella corsa che ora la Fed teme possa sfiancarlo.
Ma la “stretta” che Bernanke lascia intuire dal proprio oracolo avrà, prima psicologicamente poi praticamente, un effetto immediato e senza bisogno di interventi: quello di diminuire il “wealth effect”, la sensazione di ricchezza sulla carta che afferra chi veda riaumentare il valore della propria abitazione rispetto al debito e il gruzzolo investito in Borsa. E questo produrrà conseguenze invece tangibili, sui consumi, prima di tutto, sul costo del danaro quindi del credito, che già ha visto da giorni risalire gli interessi sui mutui, e sul corso del dollaro americano rispetto alle altre valute, principalmente di fronte a quell’euro che è ancora, ostinatamente, sopravvalutato, nonostante le ripetute profezie di disintegrazione, di fughe, di collasso di singole nazioni.
Per evitare di surriscaldare il cavallo americano, quindi, Washington e la Fed potrebbero ottenere il risultato di azzoppare ulteriormente quel povero somarello europeo che già non riusciva a stare al passo, rendendo più competitive le esportazioni Usa e meno appetibili quelle europee, almeno sui mercati esterni alla Zona Euro. La politica espansionista della banca centrale americana non era certamente riuscita a trasformare il somarello Europa in un purosangue, ma aveva contributo a darle un poco di trazione. Il tempo delle locomotive è tramontato da anni, nel nuovo mondo dove tutti sono in concorrenza con tutti e gli imperativi del confronto con il Socialismo Reale non inducono più i forti dell’Occidente a trascinarsi i partner deboli, ma l’America resta la prima potenza economica del mondo.
Il sacro egoismo manifestato ora da Washington è una cattiva notizia per noi italiani, somari tra i più lenti nel convoglio Euro, e per chi contava su un effetto America come ricostituente. La risposta, indicano ormai gli specialisti più lucidi, è una sola, ed è rifare quello che gli Usa e la Fed
fecero con successo cinque anni or sono, pompare euroliquidità per abbassare il valore relativo della moneta comune verso il dollaro – che resta la valuta dominante nel commercio mondiale – e “reflazionare” le economie, quindi la domanda e poi l’offerta, premesse per riassorbire il lavoro.
Dopo il vertice G8, nel discorso finale di fronte alla Porta Fatale della storia europea moderna, la Porta di Brandeburgo, Obama ha chiesto alla Russia di ridurre a un terzo gli arsenali nucleari. Ma forse ha dimenticato che la minaccia che grava sull’Europa politica e sociale non sono le colonne dei carri sovietici attraverso il Passo di Fulda, il blocco di Berlino o i missili SS20 che angosciarono gli anni ’80. E’ l’ anemia spossante di nazioni che arrancano sotto il peso di debiti, che l’egoismo dei creditori rende ormai intollerabile e che la stretta della Fed sul dollaro non aiuta ad allentare. Ancora una volta, come troppe volte nella storia dentro la stessa Europa, arroccate dietro la porta della propria superbia…


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