La diga della discordia

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ADDIS ABEBA. La terra rossa diventa di colpo nera. Larghe macchie scure si allungano verso la foresta che ci circonda. Il silenzio è opprimente. ‘Fuoco’, indica la guida Haki con il suo bastone nodoso. Ci guardiamo attorno: molti campi sono bruciati, le colture distrutte. Delle capanne di un piccolo villaggio sono rimasti solo legni anneriti e cumuli di cenere. Non è opera del sole. C’è la mano dell’uomo. Sono evidenti i segni dei bulldozer. Ci raccontano che migliaia di pastori e contadini sono stati cacciati dalle loro terre secolari sotto la minaccia delle armi. Duecento chilometri a sud ovest di Addis Abeba, nella Valle dell’Omo, è in corso uno dei più gradi esodi forzati dell’Africa orientale: ma non è un caso unico. Gibe III, la diga che si sta costruendo e che sta allontanando gli abitanti da queste terre, fa parte di un progetto più ampio, che prevede la realizzazione di altre barriere sui fiumi dell’Etiopia: fra tutte, la più imponente è quella chiamata “Diga della Rinascita” sul Nilo azzurro, 500 chilometri a nord ovest di Addis Abeba, al confine con il Sudan.
Una struttura che ridurrà drasticamente il livello di acqua portato dal Nilo e che priverà l’Egitto di una delle sue principali fonti di acqua. Per questo, da mesi, i due Paesi sono ai ferri corti: negli ultimi giorni il diverbio ha raggiunto l’apice, con il presidente egiziano Morsi che ha minacciato l’Etiopia di «fare qualunque cosa» per garantire al suo Paese l’approvvigionamento idrico.
Le conseguenze della crisi che rischia di destabilizzare buona parte dell’Africa orientale qui nella valle dell’Omo si vedono benissimo: il caldo torrido dei mesi scorsi ha aperto fessure nei campi che adesso sembrano ferite. Tutti attendono le piogge che bagnano l’altopiano dell’Etiopia centrale: porteranno nuova acqua, faranno gonfiare il grande fiume. Qui, in una delle culle dell’umanità, si spera che la vita tornerà a scorrere come accade da sempre.
Ma è difficile che il sogno si realizzi: Gibe III, una diga lunga 610 metri e alta 243, è un colosso di cemento armato che bloccherà e devierà il 60 per cento del flusso impetuoso del fiume più ampio della regione. Le conseguenze sono chiare: in questa zona verrà alterato il ciclo delle esondazioni che con il loro limo carico di minerali e depositi calcari rendono fertili centinaia di migliaia di ettari, fanno crescere erbe e piante di cui si nutrono gli animali, danno rifugio ai pesci per il deposito delle uova, creano l’habitat naturale per coccodrilli, serpenti, uccelli. Garantiscono la sopravvivenza di 200mila pastori e contadini appartenenti ad antichi gruppi indigeni: Bodi, Kwegu, Mursi, Nyangatom. A rischio è lo stesso lago Turkana, nel più grande deserto africano, rifornito all’80 per cento dalle acque dell’Omo.
Per il governo di Hailemariam Desalegn, il primo civile ad aver interrotto la lunga serie di militari dopo la morte improvvisa di Meles Zenawi, la diga non è un mostro. Al contrario: è il simbolo di un riscatto economico che lancerà l’Etiopia nel limbo dei grandi e la renderà il più forte esportatore di energia di tutta l’Africa orientale. Grazie a due immense turbine, la Gibe III sarà in grado di produrre 700 megawatt per raggiungere le 6000 una volta a regime. Il merito è tutto italiano: il progetto è nostro (studio Pietrangeli) e la realizzazione dell’opera è stata affidata alla Salini costruzioni. Ma se siamo ancora considerati i migliori ingegneri e costruttori del mondo, finiamo spesso per fare le cose in modo poco chiaro.
L’appalto è stato assegnato senza gara e senza uno studio serio di impatto ambientale. Solo nel 2009, tre anni dopo l’avvio dei lavori e dietro fortissime pressioni di decine di organizzazioni internazionali, l’Ethiopian electric and power corporation (Eepco), l’azienda elettrica nazionale, ha reso pubblico un rapporto nel quale rigettava le obiezioni di scienziati, antropologi e ambientalisti e giudicava l’opera compatibile con l’equilibrio naturale.
In ballo ci sono 7 miliardi di dollari per il rilancio energetico e la realizzazione di ben 6 dighe, due delle quali già operative. Nel paese l’elettricità è un miraggio. Manca, di media, 12 ore a settimana. Ma le obiezioni al piano rendono perplessi i finanziatori. L‘intera area della bassa valle dell’Omo è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. La Banca mondiale, la Bei e la stessa Cooperazione italiana si sono tirate indietro. La Sace,
che assicura il rischio, nei giorni scorsi ha garantito 100 milioni. Troppo pochi: la diga costa 4,2 miliardi di dollari e finora ne è stata raccolta la metà. Gibe III doveva entrare in funzione alla fine di quest’anno ma sarà completata solo nel dicembre 2014. La Salini è allarmata: «I nostri studi sono impeccabili. Se l’Italia non farà la sua parte, la faranno i cinesi che si sono già aggiudicati la costruzione della diga Gibe IV».
Sul campo restano americani e inglesi. Non mollano l’osso, hanno troppi interessi da difendere. Il governo etiope ne approfitta. Taccia di terrorismo chiunque critichi il progetto. La gente che incontriamo è diffidente. Ha paura. Parla poco e con difficoltà. I racconti sono impressionanti. Leader tribali arrestati, scontri, battaglie, decine di morti. La resistenza è debole. Nessuno ha è stato consultato. «Nel Suri», ci racconta un anziano Bodi, «il governo ci ha detto solo che non ci sono più erba e alberi. Bisogna andare via, più a nord. Bisogna fare spazio alle nuove piantagioni». Intere famiglie hanno dovuto abbandonare le loro terre. Tre campi, ancora segreti, sono pronti per rinchiuderli. Duemila soldati hanno circondato l’intera regione. Entrare è impossibile. Il rischio è di essere arrestati.
E’ successo una settimana fa a un giornalista di un settimanale indipendente, Ethio Mehedar.
Era andato sul posto per raccogliere testimonianze. Lo hanno sbattuto in cella e di lui non si sa più niente. Un secondo collega è stato condannato a 2 anni di carcere per attentato alla sicurezza dello Stato. «Aveva scritto che i lavoratori statali erano stati obbligati a finanziare la diga», ci spiega il direttore. Il governo ha rinunciato alla aree più depresse. Meglio un taglio drastico.
Puntare alla grande: trasformare la bassa valle dell’Omo in un centro di produzione idroelettrica e creare un bacino artificiale di 210 chilometri quadrati. Ci vorranno 5 anni per riempirlo. L’acqua cadrà dall’alto della diga: il getto produrrà 3.759 megawatt, di cui 1.418 saranno destinate al consumo interno e il resto verrà esportato. In Sudan, in Kenya ma anche in Egitto, Eritrea, a Gibuti. Le terre liberate sono già state concesse a società malesi, indiane, italiane e coreane: 445mila ettari da destinare alla bioenergia. Olio di palma, jatropha, cotone, mais.
Saranno irrigate con l’acqua del nuovo lago artificiale che rischia di attirare milioni di zanzare da malaria. L’esodo forzato, coinvolge 200mila persone in Etiopia; altre 300mila, sul lato del Kenya, rischiano di morire. Il mancato afflusso di acqua dall’Omo ridurrà di 20 metri il livello del lago Turkana. Aumenterà l’indice di salinità dell’acqua rimasta che presto evaporerà. Per le popolazioni locali che vivono sulla pesca sarà la fine.
La crisi non è solo ambientale. Ha forti ripercussioni geopolitiche. La Diga della Rinascita, l’altra diga al nord, coinvolge nove Stati: Uganda, Tanzania, Rdc, Ruanda, Burundi, Etiopia, Kenya, Sudan, Egitto. Un muro lungo 1.800 metri dimezzerà l’afflusso di acqua del Nilo blu: l’Egitto è furibondo. Negli ultimi giorni Morsi ha detto che ricorrerà alla diplomazia. Ma sono in molti nel governo a volere azioni di forza. I microfoni di una riunione segreta rimasti accesi involontariamente hanno svelato piani inconfessabili. Il leader del partito salafita Nour ha proposto di usare i ribelli etiopici del Fronte per la liberazione dell’Ogaden come forma di pressione. Morsi ha pensato di diffondere la voce che l’Egitto stava armando i suoi bombardieri. Il presidente del partito islamico El Wasaf ha chiesto direttamente di usare un commando per minare la diga. I dialoghi sono finiti in tv, l’Etiopia li ha considerati una dichiarazione di guerra. L’Egitto alla fine è stato costretto a scusarsi.
Politica a parte, le ambizioni energetiche dell’Etiopia rischiano di distruggere un ecosistema che resiste da milioni di anni e di sconvolgere l’assetto di intere popolazioni che vivono sul flusso dei fiumi.


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