Il tracollo di Treviso La roccaforte perduta e il partito dilaniato da scandali e risse

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E adesso chi glielo spiega, ai padani, che la Lega vuole «essere il partito egemone del Nord»? La caduta rovinosa di Treviso, che pareva assolutamente inespugnabile, non è solo un trauma. È l’ultimo candelotto di dinamite che esplode in una polveriera. E dilania in risse omicide un partito un tempo monolitico.
Umberto Bossi era di ottimo umore, un anno e mezzo fa, alla nascita del governo Monti. E dava di gomito: «Se sono così fessi da mandarci all’opposizione, ci rifacciamo la verginità». Macché: era l’inizio di un tormentato percorso di scandali e inchieste giudiziarie, coltellate ed espulsioni, fughe e tracolli elettorali. E se il Senatur pensava di recuperare, fuori dal governo, il «suo» popolo deluso che già aveva consegnato alla sinistra il fortilizio di Novara, le «amministrative» della primavera 2012 erano state un disastro.
Nella scia degli scandali del «Trota» e di Francesco Belsito e del fascicolo «the family» e dei diamanti finiti in tasca al senatore Piergiorgio Stiffoni, erano cadute via via Monza, dove la Lega aveva suonato la grancassa «trasferendo» tre ministeri e il paese bergamasco di Mozzo caro a Roberto Calderoli e quello vicentino di Sarego sede del «Parlamento padano» e perfino il borgo natale dell’ Umberto, Cassano Magnago, da vent’anni dominato dal Carroccio e orgoglioso di considerarsi la «Betlemme leghista».
Almeno un leghista però, allora, aveva potuto cantare vittoria: il veronese Flavio Tosi, trionfalmente rieletto al primo turno. Ma è proprio lui, oggi, a essere al centro delle polemiche intestine. Insieme con quel Bobo Maroni che su di lui aveva puntato e teorizzava appunto «l’egemonia leghista al Nord» ma già a fine febbraio, pur conquistando la Lombardia, aveva visto il Carroccio uscire col 13% scarso dei voti contro il 26% abbondante delle regionali del 2000.
Ma se è dolorosa la stangata di Brescia, che anni fa vide i primi trionfi bossiani e ora vede il Carroccio ridotto all’8,66%, è nel Veneto che più si nota l’emorragia. Qui era nata la Liga Veneta del «Leon che magna el teròn». Qui erano stati eletti, esattamente trent’anni fa, il primo deputato e il primo senatore. Qui erano stati conquistati i primi comuni. Qui il partito era arrivato a segnare record inimmaginabili, come a Chiarano, in provincia di Treviso, dove il sindaco Gianpaolo Vallardi si spinse nel 2009 a prendere in gara solitaria, contro una lista che univa destra e sinistra, il 76,6%. Una maggioranza talmente «bulgara» che gli stessi leghisti ne ridevano chiamando il paese «Chiaranov».
Altri tempi. Persino a «Chiaranov», alle ultime politiche, quello di Alberto da Giussano era solo il quarto partito col 15,1% dopo il Pdl, il MoVimento 5 Stelle e anche il Pd che da quelle parti ha sempre contato come il due di coppe con la briscola a spade. E intorno a «Chiaranov» sono cadute una cittadella dietro l’altra. A partire, appunto, dai feudi scaligeri (dunque maroniani) di Flavio Tosi, contro il quale ieri a «La zanzara» di Radio 24 il consigliere regionale veneto Santino Bozza, espulso dalla Lega poche settimane fa, sparava a zero: «Tosi e Maroni devono andare nel centro del lago di Garda, nel punto più profondo, e immergersi più a fondo possibile. Hanno distrutto la Lega, devono sparire, vadano in vacanza in eterno».
Il confronto coi numeri trionfali dell’elezione di Luca Zaia, alle ultime Regionali del 2010, dice tutto. Aveva 788.581 voti, allora, la Lega. Pari al 35,2%. Con un vantaggio di oltre 10 punti sul Popolo della Libertà, umiliato dal sorpasso. Bene: alla Camera, tre mesi fa, mentre il Pdl segnava il contro-sorpasso raddoppiando quasi i voti leghisti, i voti al Carroccio erano precipitati a 310.173 e a una percentuale del 10,8% nella circoscrizione Veneto 1 e 10,3% in quella Veneto 2.
Un disastro. E un segno inequivocabile della rottura di un rapporto trentennale. Una rottura resa ancora più vistosa, alle ultime Comunali, proprio nelle zone dove più forte, fino alla strafottenza nei confronti degli avversari, pareva il partito. Come appunto in provincia di Verona, dove la Lega alle Regionali del 2010 aveva preso il 36% e conquistato nel 2012 tra squilli di trombe il Comune capoluogo e oggi si lecca le ferite («La botta per me equivale a quando il Verona fu retrocesso. Spero che noi leghisti ci riprenderemo già l’anno prossimo, perché la squadra ci ha messo 11 anni a risalire in serie A», sospira Tosi) rimediate in luoghi ritenuti sicuri come Villafranca, Bussolengo, Sona…
In provincia di Vicenza, Zaia aveva trionfato col 63,4% trascinando la Lega al 38%: tre anni dopo le Comunali del capoluogo hanno visto la padana Manuela Dal Lago sfracellarsi al primo turno contro il democratico Achille Variati e il Carroccio precipitare a un avvilente 4,59%. Nel Veneziano, dove Francesca Zaccariotto aveva strappato nel 2009, dopo 25 anni, la Provincia alla sinistra e dove il governatore attuale aveva vinto portando il movimento bossiano al 26,1%, c’era in ballo San Donà di Piave dove proprio la Zaccariotto che gli era stata sindaco aveva il suo punto di forza: una disfatta. Con la Lega giù fino al 5,8%.
Ma è a Treviso, come ha sancito coi consueti modi spicci Giancarlo Gentilini identificando il suo personale destino con quello di tutto il movimento e della Padania stessa, che «è finita l’era della Lega e del Pdl». La città, per i leghisti veneti, valeva quanto Varese per i lumbard. Era la roccaforte. La perfetta «Padanopoli». Imprendibile, come il resto della Marca.
Tre anni fa, alle Regionali, il trevigiano Zaia aveva stravinto in provincia con quasi 66% dei voti, dei quali addirittura il 48,5% (il triplo del Pdl: il triplo!) di segno leghista. Oggi i militanti telefonano a Radio Padania Libera sfogando la loro rabbia. Hanno perso a Castello di Godego, a Istrana, a Mareno di Piave, a San Biagio di Callanta, a Vedelago…
Un tracollo da panico. Culminato appunto nella Waterloo della città capoluogo. Dove il vecchio «Sceriffo» finito sui giornali di tutto il mondo per le sue sparate razziste contro «i zingari» e «i culattoni» e i negri «inseguiti a casa loro dalle gazzelle e dai leoni» è stato annientato. E la Lega Nord si ritrova, in quella che fu per un ventennio la «sua» città, con due consiglieri su 32. E una quota dell’8,54%.
Lui, il «Genty», è rimasto nel «suo» ufficio in municipio fino a mezzanotte meno un quarto. Come se volesse restare aggrappato fino all’ultimo a quel suo pezzo di vita. Quando se n’è andato, dicono, ha spento la luce.


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