I punti deboli dei paesi in crescita

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PECHINO. Quest’anno il rapporto sui diritti globali, edito da Ediesse, ha offerto anche un focus sui Brics, ovvero Brasile, Russia, India, Cina, e Sudafrica, i cinque paesi in via di sviluppo. Al di là dell’artificialità del nome stesso, creato da Jim O’ Neil, un economista della Goldman Sachs, quello dei Brics è un agglomerato che tiene insieme paesi che – a parte il Sudafrica – hanno avuto crescite economiche vertiginose, nonostante i pochi punti di contatto a livello politico.
Sistemi politici diversi, storie differenti e in alcuni casi anche vere e proprie contese territoriali, da secoli, come Cina e India o Cina e Russia. Ma che ora ostentano un clima di apparente cordialità.
La Cina tende a puntare molto sul futuro dei Brics e la stabilità delle relazioni fra i paesi protagonisti del gruppo gira molto sulle reali intenzioni, o meno, di Pechino. Durante l’ultimo summit – come sottolinea anche il rapporto – è stata peraltro annunciata l’intenzione di «fondare una banca sovranazionale dei Brics, un istituto multilaterale finanziato interamente dai paesi in via di sviluppo per progetti a loro destinati (bio-carburanti, dighe ed energie nucleari) che magari non incontrano gli standard della Banca Mondiale. Oltre a rappresentare un altro incremento dell’agenda politica proattiva dei cinque, vi sarà un impatto piuttosto significativo sul sistema finanziario mondiale». Chi pensa positivo, ritiene che questa iniziativa dei Brics possa finalmente portare a un ripensamento e a riforme necessarie che la finanza occidentale, incapace di prevedere la crisi, avrebbe già dovuto compiere.
Cosa accomuna questi paesi? La vastità territoriale e di popolazione e alcuni vantaggi economici: «Sono tutte nazioni caratterizzate da un notevole livello di incremento dello stato nell’economia. Anche se nel caso della Cina e dell’India esso si sia ridotto in misura rilevante nell’ultimo periodo, vi rimane comunque forte, mentre in Russia abbiamo assistito prima a un drammatico declino della sua influenza, dopo la caduta del regime sovietico, poi a un suo ripristino sia pure parziale, in particolare nell’ultimo decennio». Un altro elemento in comune è l’aumento dell’inflazione: «L’India nel 2012 è risultata la peggiore per il livello di inflazione (11.2%) seguita dalla Russia, dove nel corso dell’anno i prezzi sono aumentati in totale del 6,6%. In Cina, a gennaio 2012, l’indice dei prezzi al consumo ha registrato invece un incremento su base annua del 4,5% (…). Si tratta di livelli superiori in misura rilevante a quello dei paesi avanzati». Crescite economiche importanti ma dai tanti punti deboli.
C’è poi da riservare un capitolo a parte, come fa il rapporto, alla questione del lavoro in Cina. Il basso costo del lavoro è stato per trent’anni il motore economico di Pechino, la base su cui puntellare il proprio successo come fabbrica del mondo. Negli ultimi tempi però con straordinari scioperi e lotte importanti, i lavoratori hanno ottenuto grandi risultati, aiutati anche dalla necessità del paese di sviluppare il mercato interno, concedendo quindi più soldi ai propri lavoratori da spendere nel consumo, tenendo presente che il sistema dell’Hukou, il certificato di residenza, che ancora il welfare alla regione di provenienza, costringe molti dei lavoratori che arrivano in città dalle campagne a spendere il proprio salario nell’acquisto della casa, nei servizi sanitari e nell’educazione dei figli. A Pechino e altrove «il salario minimo è stato aumentato del 20%. L’ammontare delle retribuzioni è cresciuto in misura anche maggiore in molte imprese. Per alcune categorie di operai specializzati sono ormai offerti, almeno in alcune fabbriche, fino a 700 dollari al mese». Non a caso avanza ormai l’ipotesi che di questo passo, tenendo conto dell’aumento del costo del lavoro e di quello del valore della moneta, il costo del lavoro cinese sui mercati internazionali si collocherà al livello degli Stati Uniti e della zona euro entro 5 anni.
Si conclude che quindi «la competitività dei prodotti cinesi sarà gravemente indebolita».
A questi ritmi, si chiede il Rapporto, quanto tempo dovrà ancora passare perché i lavoratori cinesi guadagnino come quelli di Mirafiori? Pochi anni, probabilmente.

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