I direttori a orologeria colpo di grazia ai musei

by Sergio Segio | 22 Giugno 2013 17:37

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 Ma diffusa solo ora dal segretario generale del ministero dei Beni culturali. Ne ha dato notizia il 20 giugno in queste pagine Francesco Erbani: l’idea di base è che nessun funzionario potrà restare allo stesso posto per più di tre anni, e ciò «come misura di prevenzione della corruzione». Il tutto in un intrico di norme e codicilli che, si pretende, risponderebbero a superiori disposizioni nientemeno che dell’Onu e del Consiglio d’Europa. Peccato che tali sollecitazioni, se pure esistono, non siano affatto vincolanti per l’Italia, dove l’obbligo costituzionale della tutela, come ha dimostrato Giuseppe Severini, costituisce un’“eccezione culturale” anche rispetto alle norme, in altri settori ben più cogenti, dell’Unione Europea. Peccato che in nessun Paese aderente all’Onu o al Consiglio d’Europa si stiano mettendo sul banco degli imputati i direttori di museo, ritenendoli (come vuole la circolare ministeriale) «particolarmente esposti alla corruzione». Negli ultimi mesi, nuovi direttori sono stati nominati in importanti musei: al Louvre Jean-Luc Martinez (dopo dodici anni di brillante direzione di Henri Loyrette), al Getty Museum Timothy Potts, per fare solo due esempi. In nessuno di questi e altri casi è venuto in mente a qualcuno di contingentare la durata della direzione invocando pretese “sollecitazioni Onu”.
La sorda matrice burocratica che informa il tortuoso linguaggio della circolare è dunque made in Italy: ma è il prodotto dell’Italia di oggi con le sue marcate tendenze al suicidio, e non di quell’Italia dove fu creata l’istituzione-museo, non di quella dove nacque l’idea stessa di norme e strutture pubbliche della tutela, che dagli antichi Stati italiani si irradia fino ad oggi in tutto il pianeta. A monte dei pretestuosi giri di parole con cui la circolare schiaffeggia l’intero staff del ministero si legge la stolta concezione che assimila funzionari di soprintendenza e direttori di museo a passivi ingranaggi di una qualsiasi burocrazia, prefettura o anagrafe o catasto. Si è dunque perso per strada, in questo smemorato Paese, l’alto progetto con cui l’Italia liberale da cui tanto ci resta da imparare inventò le soprintendenze territoriali e le articolazioni museali: strutture concepite come istituti di ricerca sul territorio, di conoscenza del patrimonio e dei paesaggi, di protezione della memoria storica, di custodia dell’anima stessa del Paese. Eppure fu questa concezione, nobile e funzionale insieme, a ispirare l’altissimo statuto della tutela scolpito nell’art. 9 della Costituzione. Perciò le soprintendenze furono espressamente ricordate, nella discussione in Costituente, da Concetto Marchesi, uno dei due proponenti dell’art.9 (l’altro fu Aldo Moro). Perciò la Corte costituzionale ha riconosciuto il ruolo delle soprintendenze e di «particolari misure di tutela» per «salvaguardare beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del Paese e conservare e garantire la fruizione da parte della collettività» (sentenza nr. 269/1995).
Si parla tanto oggi, spesso a vuoto, di gestione e di valorizzazione dei beni culturali: ma come si fa a valorizzare quel che non si conosce? Le funzioni conoscitive (cioè di ricerca) delle direzioni museali e delle soprintendenze sono essenziali non solo alla loro missione, ma alla democrazia e alla vita culturale del Paese. Il loro obiettivo è di accrescere le conoscenze sul patrimonio e sui paesaggi, di farli conoscere ai cittadini, di consegnarli alle generazioni future migliorandone lo stato di conservazione e il contesto di fruizione. Quel che accomuna i musei di tutto il mondo (quelli, beninteso, che meritano questo nome) è la centralità della ricerca, la specificità delle competenze, la continuità dei programmi. È su questa base che in the profession, come si dice, si svolge una perpetua conversazione, alla pari, fra archeologi e storici dell’arte di ogni Paese. È su questa base che si stendono progetti di mostre, si formulano programmi di cooperazione, si stabiliscono sinergie, si scoprono affinità, si coltivano differenze. Professionalità e potere decisionale sono sempre intimamente connessi, anche se l’Italia mortifica i direttori dei musei sottoponendoli a una schiacciante gerarchia che toglie loro quel che i colleghi americani, francesi o tedeschi hanno di norma: il potere di dire l’ultima parola. Se di una riforma c’è bisogno, è per dare più potere, più indipendenza e più responsabilità ai direttori di museo, e non per umiliarli considerandoli d’ufficio come esposti alla corruzione. Chi ha scritto la circolare non sa forse che tre anni non bastano per conoscere a fondo un territorio e tutelarlo adeguatamente? Non sa che i musei più seri (per esempio negli Usa) progettano mostre ed altri eventi con cinque o sei anni di anticipo? Non sospetta che denunciare la supposta corruttibilità dei funzionari italiani vuol dire esporli al ridicolo e al disprezzo dei loro colleghi? O il vero scopo di chi ha concepito la perversa misura è di impedire la conoscenza dei territori e dei musei, di paralizzare la tutela, di rendere impossibile la ricerca, di vietare ogni rapporto alla pari con i musei stranieri?
Qualcuno parla di oscure manovre di corridoio, secondo cui il pessimo ex ministro Ornaghi avrebbe deciso di sparare nel mucchio per colpire pochi funzionari a lui sgraditi. Se a un provvedimento già di per sé negativo si dovesse aggiungere questo ulteriore ingrediente, il degrado di quel ministero ne risulterebbe ancor più evidente. Ma è arrivato ora il momento della verità: se queste pretese sollecitazioni Onu sono vere, saranno applicate immediatamente anche ad altre categorie, come i professori universitari, i direttori generali di tutti i ministeri, i magistrati? O il sospetto di corruzione è riservato ai funzionari di soprintendenza? Il nuovo ministro Massimo Bray ha trovato al Collegio Romano un paesaggio di rovine, e in qualche altro caso ha già mostrato la volontà di rimediare. Fiduciosamente aspettiamo che salvi presto dalla gogna il personale che da lui dipende, e che anzi ne valorizzi e riconosca le capacità migliorando la job description e le prospettive di carriera, accrescendo gli stipendi, provvedendo alle nuove massicce assunzioni che sono necessarie. Un ministro giovane e colto come lui non può essere il becchino del suo ministero. Può e deve essere il difensore della Costituzione.

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