E Zagrebelsky critica i Cinquestelle “Un partito personale, come il Pdl”

by Sergio Segio | 8 Giugno 2013 23:00

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È una parola abusata nel lessico della politica italiana, ma su cui proprio per questo è indispensabile interrogarsi con franchezza. Populismo «vizio italiano » sul banco degli imputati, ieri sera in Palazzo Vecchio per Repubblica delle idee, con Ilvo Diamanti, Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà intervistati da Lucia Annunziata su «L’Italia postpopulista », sebbene parlare di «post», al momento, ha osservato la moderatrice, non sembri ancora il caso. Nell’aria l’eco dell’ultimo j’accuse di Grillo sul parlamento «tomba», «espressione inaccettabile», commenta Zagrebelsky (con Rodotà fra i primi dieci candidati alla presidenza della Repubblica dal movimento 5 stelle), «alla cui radice, però, c’è il discredito delle istituzioni parlamentari », «lessico di tempi feroci di cui Grillo non ha l’unica colpa», dice Diamanti, introducendo il tema della serata in modo problematico: «Il populismo deriva da demos, popolo, cioè fa parte della democrazia, e se se ne parla tanto vuol dire che la democrazia rappresentativa è percepita come poco nobile, incompleta, escludente». E insomma si trovi il coraggio di dirlo, dati alla mano (quel 50% di elettori italiani che non si ritrova più nei maggiori storici): «La colpa è di chi non ti dà più buone ragioni per votarlo, non di Grillo». Non basta: «E se accusassimo di populismo semplicemente il cambiamento del nostro tempo? Cioè la democrazia ai tempi della tv, del web, dei social network?» propone Diamanti. Domande scomode, che intaccano sicurezze (politiche) sedimentate: «È vero» conferma Rodotà, «demonizzare la rete è un errore pericoloso», e bisogna ammetterlo: «La democrazia rappresentativa non è messa a rischio dalla democrazia partecipata, ma dalla ignoranza di questo strumento che può invece rivitalizzarla in modo straordinario». Perché sia chiaro: la democrazia, in Italia, non sta affatto bene, «e il populismo non è che un modo per usare il popolo facendolo coincidere con la democrazia». Basta vedere «come è facile distorcere l’idea stessa di sovranità popolare, usarla a favore della personalizzazione della politica», e magari sostenere che «se i cittadini mi votano ho il diritto al potere anche se ho addosso duecento condanne ». E’ l’effetto, nota Zagrebelsky, «del venir meno dei simboli, di cui, però, la politica non può fare a meno». Quelli che un tempo evocavano intere culture politiche (vedi lo scudo crociato), e «oggi sono soppiantati dai simboli semplificati dei leader in persona, movimenti e partiti che hanno successo solo perché sono personali, come Pdl e M5S. Ve lo immaginate – chiede al pubblico il costituzionalista – il Movimento 5 Stelle senza Grillo?».
Ma parlare di populismo e discutere di presidenzialismo, è un attimo, e il dibattito si schiera ben presto sul fronte rovente, toccando anche il tema riforme istituzionali, su cui il premier Letta, poco prima, nello stesso Salone dei ‘500, «ha dato, dice Diamanti, «risposte che non erano risposte». Concorda Rodotà: «Eludere il tema della legge elettorale mi sembra un fatto molto grave, quella attuale insidia anche la possibilità
di lavoro del governo» osserva il giurista a proposito della mancata «messa in sicurezza» del Porcellum, «quando lo ritenesse conveniente qualcuno che può dire “stacchiamo la spina e andiamo a votare con questa legge” ci sarà
sempre», e invece «una legge elettorale dovrebbe garantire sempre la neutralità del gioco».
Quanto al presidenzialismo «attenzione» avverte Diamanti, se «per fare riforme istituzionali non ci vuole molto», per quelle costituzionali «occorrono molte buone ragioni e condivisione», e insomma guai a confondere «la Costituente con il governo di larghe intese». «Le riforme costituzionali possono essere un salto nel buio» avverte Zagerbelsky, che insiste nel mettere in guardia l’Italia dal “salto” presidenzialista: «In un paese con un alto tasso di corruzione, e un basso tasso di istruzione e cultura, introdurre forme di governo semplificato sarebbe un pericolo». Anziché sulle ingegnerie istituzionali, che considerano la vita politica come un puro meccanismo mentre serve sempre «uno studio profondo dell’ambiente politico istituzionale cui si far riferimento», si punti piuttosto, dice Zagrebelsky, «a cambiare la qualità della politica », per non correre il rischio di «fare le riforme, e poi tenerci la politica così com’è, anche se non piace a nessuno».

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