Diritti globali alla resa dei conti
“L’austerità è una condanna a morte per i più poveri”. Non l’ha detto un parroco o un sindacalista. A parlare è Joseph Stiglitz, Nobel per l’economia ed ex vicepresidente della Banca Mondiale. Non certo l’unico studioso che la pensa così. Come ha avuto modo di spiegare Paul Krugman, “il programma dell’austerity rispecchia da vicino la posizione dei ceti abbienti, ammantata di rigore accademico. Ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera, diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare”. Il Rapporto sui diritti globali 2013 (casa editrice Ediesse) parla di questo: della convinzione che l’austerità sta aggravando la crisi, e della richiesta di nuovi investimenti per il welfare. “Il mondo al tempo dell’austerity” è il titolo – quasi obbligato – della nuova edizione presentata oggi (martedì 4 giugno) nella sede della Cgil.
Opera enciclopedica giunta quest’anno all’undicesima pubblicazione e che dell’ultima decade ha raccontato l’arretramento dei diritti e della ricchezza, l’indebolimento della democrazia, la demolizione del sistema di welfare. Come sempre, il lavoro è stato curato dall’Associazione Società Informazione Onlus e promosso dal sindacato di Corso d’Italia insieme a una lunga lista di associazioni. Macro-capitoli tematici documentano la situazione e delineano possibili prospettive future. L’analisi e la ricerca sono corredate da cronologie, schede tematiche, quadri statistici, un glossario e una bibliografia e sitografia, oltre alle sintesi dei capitoli e dall’indice dei nomi: praticamente impossibile sintetizzarlo qui, vista la mole di dati che si possono trovare.
Che il rigore dei conti pubblici non sia l’unica strada possibile, è scritto nel dossier, lo sostiene anche l’Ilo, sottolineando che strade opposte hanno finora ottenuto risultati assai positivi. “Gli Stati Uniti hanno finanziato politiche per la crescita riducendo la disoccupazione e giungendo nel primo trimestre 2013 a un +2,5% del Pil. Paesi come Uruguay, Brasile e Indonesia hanno consolidato e ampliato l’occupazione e la qualità del lavoro grazie a politiche di sviluppo”. In Europa, invece, “oltre alla disoccupazione, cresce la precarietà, quella che sino a poco tempo fa si era usi edulcorare chiamandola flessibilità”.
Cosa si nasconde, allora, dietro l’apparente asetticità e inevitabilità delle misure imposte dalla Troika? Come spiega nella prefazione Sharan Burrow, segretario generale del sindacato mondiale (Ituc), “siamo di fronte a una storica e finale resa dei conti con il modello sociale che ha contraddistinto a lungo l’Europa, garantendo i diritti del lavoro e delle fasce più deboli della popolazione. Dietro allo schermo delle ragioni economiche e di bilancio, si afferma una visione del mondo e delle relazioni sociali e umane diversa da quella che abbiamo conosciuto e che è stata conquistata dalle lotte e dai sacrifici dei lavoratori, dei sindacati, delle forze sociali lungo tutto il secolo scorso”. Secondo il dossier curato da Sergio Segio, nella risposta alla crisi anche il sindacato deve avere un ruolo primario. Anche per questo, affinché la difesa dei diritti dei lavoratori possa essere globale, quest’anno c’è la partecipazione della Comisiones Obreras de Catalunya. Poiché se dai diritti e dal lavoro bisogna ripartire, anche la risposta dei sindacati deve essere globale.
Scrive nel suo intervento il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso: “La globalizzazione ha prima determinato le enormi contraddizioni che conosciamo tra il fatturato delle imprese globali e le condizioni di reddito e di lavoro di milioni di cinesi, di indiani e di altri popoli del Sud-Est asiatico. Poi è ritornata, come uno tsunami, in Europa e negli Stati Uniti ad abbassare i trattamenti retributivi e rendere volatili le condizioni di lavoro previste da contratti e leggi”. E così “il capitalismo senza regole ha generato giovani disoccupati anche in Occidente, mentre gli interventi delle autorità europee hanno agito solo sul versante del rigore”. Eppure, osserva ancora la dirigente sindacale, “nessun Paese dell’euro è in grado di produrre un equilibrio stabile dei conti e tantomeno di crescere da solo, nemmeno la Germania”. Quanto al nostro paese, “il governo dei tecnici ha addirittura immaginato che fosse utile, nella crisi, indebolire il sistema della rappresentanza sociale, e sostituirlo con una rete di rapporti privilegiati con le lobby economiche e finanziarie più vicine alla cultura liberista”. Per cambiare rotta occorre seguire le politiche di crescita immaginate dal Piano del Lavoro della Cgil che “coinvolgono imprese, università, centri di ricerca e istituzioni di governo sia a livello centrale che territoriale. Con l’idea che una politica di innovazione dell’economia e del lavoro possa essere in se stessa una grande riforma di sistema”.
Oltre alle analisi a livello globale, il Rapporto indaga anche su quello che è successo in casa nostra. Gli ultimi dati dell’Istat documentano un Paese ferito in profondità, con consumi calanti e famiglie impossibilitate a far fronte ai costi di cure ed esami diagnostici, a pagare le bollette, a riscaldare l’abitazione, con povertà e rischio di esclusione che riguardano un quarto della popolazione; percentuali che si raddoppiano per la scandalosa povertà minorile. Tra il 2012 e i primi tre mesi del 2013, sarebbero 121 le persone che si sono tolte la vita per cause direttamente legate al deterioramento delle condizioni economiche personali o aziendali: il 40% in più rispetto all’anno scorso. La distanza tra ultimi e nuovi penultimi, già breve, si è ulteriormente accorciata. Su un totale di 16,7 milioni di pensionati, quasi otto milioni percepiscono meno di 1.000 euro mensili, oltre due milioni sono sotto i 500 euro.
Tante cifre e testimonianze della crisi, ma tra le pagine d’analisi troviamo suggerimenti e proposte. Anzitutto, “ritrovare l’equilibrio tra economia, società e politica”. Secondo punto: “Affiancare la crescita quantitativa al miglioramento della qualità e del benessere, puntando sulla sostenibilità sociale e ambientale”. Terzo suggerimento: “Sviluppare nuove attività ad alta intensità di conoscenza, apprendimento, valore aggiunto, occupazione stabile, alti salari”. Infine, “avviare questo riorientamento attraverso un processo di ampia partecipazione democratica, sia all’interno dei processi politici, sia nell’azione della società civile nelle sue varie articolazioni”.
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