Datagate, gli Usa: sventati 50 attacchi in 20 paesi
NEW YORK — Cinquanta attentati sventati, in venti Paesi diversi, dieci in territorio americano. Bombe contro Wall Street e nella metropolitana di New York, un attacco al Jyllands Posten, il giornale danese che pubblicò le vignette satiriche su Maometto e infine una rete di contatti logistici e finanziari tra gli Stati Uniti e le cellule di Al Qaeda in Somalia. Per l’intelligence Usa è il giorno della difesa, dopo essere stata sul banco degli imputati per giorni a causa delle rivelazioni di Edward Snowden che hanno portato alla luce i due programmi di raccolti dati: quello telefonico e quello via Internet.
Alla Commissione sicurezza del Congresso parlano il generale Keith Alexander, capo dell’Nsa e Sean Joyce, numero due dell’Fbi. «Anche noi, come americani, abbiamo a cuore la privacy, i diritti civili e la libertà, Prism e gli altri dispositivi non hanno mai messo in pericolo questi valori. Nessuno di noi ascolta le telefonate dei cittadini e tra l’altro le informazioni vengono cancellate dopo cinque anni. Questi sistemi sono in funzione per proteggerci e hanno lavorato molto bene», spiega Alexander, che poi aggiunge: «Non possiamo rivelare tutti i dettagli, ma sono stati preziosissimi per mettere al sicuro noi e i paesi nostri alleati in giro per il mondo». Europa compresa, come a lanciare un messaggio agli Stati, come la Germania, che hanno avanzato dubbi e critiche.
Le fonti dell’intelligence italiane sono ovviamente prudenti, si limitano a dire: «Nessun attentato è stato sventato nel nostro territorio grazie ad informazioni dirette della Nsa». E le parole chiave sono «dirette» e «Nsa», ovvero è difficile escludere in assoluto che nel complicato passaggio di notizie da un’agenzia all’altra ci siano stati altri tipi di comunicazioni.
Le minacce su cui invece fornisce dettagli il vicecapo dell’Fbi sono quattro. A Kansas City c’è Khalid Ouazzani, marocchino, che è in stretto contatto con un gruppo estremista di base nello Yemen. Prima e-mail e poi telefonate. I suoi dati finiscono dentro la rete dell’intelligence americana che lancia un’operazione chiamata Wi-Fi e scopre il suo piano: piazzare esplosivi al New York Stock Exchange. Viene arrestato, anche se – come precisa il dipartimento di Giustizia – viene condannato solo per finanziamenti ad Al Qaeda. Stessa accusa viene mossa ad un uomo di San Diego che mette in piedi una rete di sostegno economico e forse logistico con i terroristi somali.
L’attentato alla metropolitana di New York era già stato raccontato nei primi giorni delle rivelazioni. In prigione c’è Najibullah Zazi che, su indicazione di una cellula terroristica pachistana, noleggia un’auto a Denver, dove vive, e si muove verso la Grande Mela. Non ha ancora scelto se colpire la stazione di Times Square o quella di Grand Central Station, sa però che lo farà nell’ora di punta. Lo fermano prima che possa agire.
Già conosciuta anche la storia di un altro pachistano, Daood Sayed Gilani, naturalizzato David Headley: prima è coinvolto come fiancheggiatore negli attacchi agli hotel in India, poi le successive intercettazioni rivelano che ha in mente di andare in Danimarca per colpire il giornale danese che ha pubblicato le vignette satiriche su Maometto. La difesa del generale Alexander arriva ad evocare anche l’11 settembre: «Se questi sistemi fossero stati in vigore prima di allora, avremmo potuto sapere che il futuro dirottatore Khalid Muhammad Abdallah al-Mihdhar era a San Diego e mandava messaggi verso lo Yemen», ovvero non sarebbe mai riuscito a schiantarsi sul Pentagono.
Ma la diga alzata difficilmente arginerà le polemiche. In Gran Bretagna si apre un nuovo fronte, con il Guardian che accusa il governo di aver provato a censurare lo scoop o comunque a limitarne gli effetti. Una lettera è stata inviata ai direttori delle altre testate invocando il D-Notice: una sorta di auto-censura quando sono in ballo questioni di sicurezza nazionale. Edward Snowden, scrive il giornale dello scoop, avrebbe chiesto ad un collaboratore di Julian Assange, Kristinn Hrafnsson di aprirgli una strada verso l’asilo in Islanda. Non si conosce la risposta. Sulle sue tracce restano gli agenti americani: «Ha procurato danni irreparabili aiutando i nostri nemici», dice Alexander al Congresso. La caccia continua.
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