Contro il denaro

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ANSELM JAPPE, È UN FILOSOFO DI ORIGINE TEDESCA, ALLIEVO DI MARIO PERNIOLA. Ha pubblicato nel 1993 la prima monografia su Guy Debord (ultima edizione Manifesto Libri 2013) e ha continuato ad occuparsi dei situazionisti, nonché dell’opera di Karl Marx soprattutto attraverso l’interpretazione della «critica del valore». Di recente in italiano, è stato pubblicato Contro il denaro (Mimesis 2013). Il convegno internazionale «I situazionisti: Teoria, Arte e politica» si è tenuto al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Tre, hanno partecipato tra gli altri: Mario Perniola, Toni Arno, Carsten Juhl, Giorgio de Vincenti e Anselm Jappe, che ho intervistato in una pausa del convegno, per poi proseguire la conversazione a distanza, mentre esplodevano le insurrezioni in Turchia e Brasile.
Oggi si sta dissolvendo il lavoro. Possiamo sperare di vivere una vita più autentica e creativa?
«Il paradosso risiede nel fatto che è proprio la società del lavoro ad abolire il lavoro…La sostituzione del lavoro con la tecnologia e la disoccupazione strutturale potrebbero in sé essere un fattore positivo: in una società razionale, le tecnologie permetterebbero a tutti di lavorare molto di meno, e ciò sarebbe un bene. Invece la società capitalista non si interessa all’utilità o meno, ma alla sola produzione del “valore”: chi non ha un lavoro viene tagliato fuori dalla società. Ma quando la crisi del capitalismo raggiungerà il suo apice, almeno la metà della popolazione globale diventerà un’umanità superflua. Quindi, quello che potrebbe rappresentare una chance, in realtà è una tragedia»
Quale sarebbe oggi la nuova base sulla quale rifondare l’organizzazione sociale?
«Potrebbe essere costituita da un accordo diretto tra individui sulle attività da svolgere per raggiungere determinati obiettivi produttivi fissati insieme, con un minimo di fatica. Il marxismo tradizionale ha evidenziato un opposizione tra quelli che lavorano e quelli che si appropriano del lavoro altrui, ma oggi questa distinzione non è più così centrale».
Cosa pensa della prassi dell’autogestione e delle forme di scambio che vanno sempre più emergendo nella società? E perché la sinistra non abbraccia ancora quest’«economia alternativa»?
«La sinistra non capisce che il capitalismo nuovo abolisce proprio le vecchie categorie. Alla sinistra è sfuggita l’evoluzione recente del capitale che abolisce il denaro, come ho cercato di dimostrare in Contro il denaro. L’“anticapitalismo” della sinistra è solo un “antiliberalismo”: non ha mai concepito una vera alternativa».
Come i movimenti Occupy e Indignados che si limitano ad una critica al sistema finanziario senza ancora aver pensato una alternativa vera?
«È certamente positivo che movimenti di massa rompano la passività e l’obbedienza. Ma come ho già scritto in vari articoli, in realtà, si limitano a colpire l’alta finanza, non criticano l’accumulazione del valore alla sua radice. Riprendono anche, normalmente senza accorgersene, i vecchi temi cari all’estrema destra – l’avidità di un pugno di banchieri “malvagi” versus l’onestà dei risparmiatori – rischiando di sfociare nel mero populismo, quando non nell’antisemitismo. Lo slogan “siamo il 99%” è rivelatore! Dove andrà a finire tutto questo scontento? Allo scenario italiano? Dove lo scontento non ha nemmeno portato agli Indignados, ma al Grillismo: in un populismo apparentemente di sinistra ma in realtà intrinsecamente di destra».
Le insurrezioni in corso in Brasile e in Turchia, invece, non sono di natura diversa e nuova?
«Pare proprio di sì. La loro apparizione assoltamente spontanea e inattesa e il fatto che si situano fuori dagli schemi della vecchia politica dimostrano che tutto può ancora succedere, anche e soprattutto dove il capitalismo è apparentemente “in buona salute”, nei cosiddetti paesi emergenti. L’aspetto più notevole di queste contestazioni è forse la critica implicita alle varianti locali dello “spettacolo”: in Turchia lo spettacolo religioso, cioè l’islamizzazione della società con un ritorno all’“ordine morale”, in Brasile lo spettacolo sportivo che ha svolto finora un ruolo così grande nella passivizzazione della popolazione. Sembra di percepire, insieme alla rabbia, una gioiosa autoaffermazione, un piacere di conquistare lo spazio pubblico e di stare insieme». Quale sarebbe una critica rivoluzionaria del capitalismo, che possa costituire una vera rottura definitiva e costruttiva?
«Al seguito della crisi del 2001, l’Argentina ha sperimentato diversi tentativi di riappropriazione dei mezzi di produzione. Molto positivo è il pensiero della “decrescita” che cerca di rompere con un stile di vita mettendo in primis in discussione il proprio comportamento. Una critica efficace all’insieme del sistema non deve solo chiedere una diversa redistribuzione ma mettere in campo una nuova civiltà».
In questa uscita dalla civilità attuale ci sarà posto per l’eredità del situazionismo?
«Diversi soggetti nella società attuale, dagli hacker agli agricoltori bio, vaste aree sovversive e artistiche, si rivendicano “situazionisti”. Esistono in realtà numerosissime persone aperte ad una ricerca nuova e pronte per un cambiamento radicale».


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