Chi ci spia

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Dal sesso agli hobby, ogni informazione che ci riguarda venduta senza alcun consenso: ecco chi ci guadagna

. In un mondo in cui tutto ha un prezzo, noi sappiamo il nostro: come uomini (ammetterlo costa un po’) valiamo “solo” 0,0007 euro a testa. Come maschi residenti uno a Milano e l’altro a Roma qualcosina in più, ma si parla di briciole. Se vi dicessimo che stiamo per cambiare la moto, la nostra quotazione schizzerebbe alle stelle: 0,15 euro. Come facciamo a saperlo? Facile. Noi – come voi, vostri figli e nipoti – siamo stati già venduti migliaia di volte.

Senza che nessuno abbia mai avuto il buon gusto di avvisarci (questo è il meno) e, soprattutto, di pagarci.
Benvenuti a Big Data, il mercato (al momento un Far West ancora in attesa di regolamentazione) dei nostri alter ego virtuali. Un suk da 10 miliardi di euro l’anno dove ogni giorno si comprano e si vendono come figurine Panini – a totale insaputa degli interessati – le carte d’identità elettroniche degli italiani. Ritratti fedeli come fotografie, ricostruiti dagli algoritmi degli acchiappa-dati della rete, in arte i
data broker.
Che pedinandoci un clic alla volta nel labirinto del web (con il nostro inconsapevole consenso) sono riusciti a sapere tutto di noi: chi siamo – anche se in forma anonima – dove abitiamo, quale sport ci piace, cosa mangiamo e come spendiamo i nostri soldi. Merce che vale oro nel mondo della pubblicità online. Una casa automobilistica vuole piazzare la sua nuova cabriolet? Inutile gettare soldi al vento piazzando milioni di banner a casaccio nel
mare magnum della rete. Basta acquistare al supermercato degli identikit virtuali i nominativi (in realtà gli indirizzi dei pc) dei 30-40enni sportivi, in buona salute, senza figli e in cerca sul web di una quattroruote nuova. Li si paga, in Italia costano circa 1,5 euro ogni mille, e poi li si aspetta al varco.
Voilà: appena accendono il computer a casa o al lavoro appare loro sotto il naso, come per magia, un video “mirato” della spider dei loro sogni.
In America il 30% della pubblicità via internet – vale qualcosa come 15 miliardi di dollari l’anno – è fatto già di “spot intelligenti”. Teleguidati da questa compravendita miliardaria di avatar informatici ad acquirenti precisi. «In Italia siamo ancora ai primi passi – spiega Simona Zenette, presidente
dell’International advertising bureau tricolore – e la cosiddetta “pubblicità comportamentale” copre solo il 3% dei display in rete». Ma i profili di Ettore Livini, Tiziano Toniutti e anche i vostri (anche se nessuno sa che siamo noi) sono già stati scambiati e venduti come in un mercatino rionale a multinazionali, banche, case automobilistiche e catene di grande distribuzione per un valore di 21 milioni nel 2012. Cifra che quest’anno «potrebbe già raddoppiare», come ammette Zenette.
La moneta corrente di questo mercato sono i cookies, le sentinelle elettroniche piazzate dai data-broker nei nostri computer che monitorano passo dopo passo le navigazioni. Registrano ogni clic su un “Like” – in Italia sono tre miliardi al mese quelli su Facebook – e rastrellano a caccia di preziose informazioni sul nostro conto i social network (siamo 22,7 milioni su Facebook, 3,3 su Twitter, 3,8 su Google+ e 3,5 su Linkedin). Al resto pensano le macchine, trasformando il tutto in merce di scambio («senza registrare dati sensibili», precisa Zenette) pronta per essere messa all’asta.
«Noi siamo nati da poco ma abbiamo già in banca dati 40 milioni di cookies (ogni persona può averne da due a sei) e per ognuno abbiamo qualcosa come 600 punti dato, vale a dire “registrazioni” di passaggi internet» dice Paola Colombo, direttore della filiale italiana di Xaxis, uno dei colossi mondiali di questo business. Tradotto in soldoni, nei suoi archivi informatici sono “schedati” (in maniera del tutto legale) tra i cinque e i dieci milioni di indirizzi internet italiani. «Non sappiamo il nome di nessuno, ovvio – rassicura la manager –. Abbiamo solo degli Ip di computer». Ma di ognuno di queste carte d’identità senza fotografia i giganti di Big data sanno se fa capo a un maschio o a una femmina, l’età presunta, la residenza, gli interessi, i viaggi e gli acquisti. E sanno soprattutto come trasformare queste informazioni in denaro sonante. Il prezzo? Da 70 centesimi per mille “pezzi” per i dati base fino ai 3-5 euro per i profili più raffinati.
In Gran Bretagna e Usa, dove gli acchiappa-dati sono quotati in Borsa e valgono miliardi di dollari, siamo ancora più avanti. Oltre alla rete i loro dipendenti saccheggiano tutte le fonti di notizie più o meno pubbliche (anagrafe, ospedali, tracce del cellulare, motorizzazioni, banche dati di banche, gps, carte fedeltà dei supermercati) e incrociando miliardi di informazioni creano profili sempre più precisi. Roba che si vende a peso d’oro. Leadplease.com – ha scoperto il Financial Times – ha in listino a 260 dollari per mille cookies la lista di malati di tumore. BlueKai Exchange, la piattaforma forse più avanzata al mondo, ha nei suoi cervelloni l’identikit commerciale di 300 milioni di persone (il 5% degli abitanti del mondo) e ogni giorno che Dio manda in terra macina 750 milioni di nuove operazioni.
Gli algoritmi consentono ormai di leggere questo fiume di cifre a basso costo, in pochi secondi e come se fossero libri aperti: il prezzo per immagazzinare un gigabyte di informazioni, spiega un recentissimostudiodell’Ocsededicato proprio al fenomeno della compravendita di dati, è crollato
dai 56 dollari del ’98 agli 0,05 centesimi attuali. E per dare un’idea della potenza di fuoco delle nuove tecnologie, Adam Sadilek dell’università di Rochester e John Krumm della Microsoft hanno dimostrato in uno studio che bastano pochi dati del cellulare incrociati con il segnale Gps del tablet per prevedere con una precisione dell’80% dove si troverà una persona 80 giorni dopo. «E visto che l’80-85% dei contenuti del web è ancora una miniera non sfruttata da Big Data, dobbiamo capire sia i benefici che i rischi per la privacy di questo fenomeno », scrive l’Ocse.
«La riservatezza comunque è tutelata, noi commerciamo solo dati del tutto anonimi» conferma Roberto Carnazza, responsabile di Weborama Italia. La Ue – inseguendo il fenomeno – sta elaborando un sorta di maxi-regolamento di settore che dovrebbe vedere la luce il prossimo anno. «Il Garante per la privacy in Italia ha accelerato i tempi e noi stiamo studiando con lui un primo quadro di norme italiane da varare in anticipo rispetto a Bruxelles», assicura Zenette. Dopo l’estate l’Authority incontrerà le parti coinvolte per una seconda consultazione che potrebbe arrivare a uno schema di controllo per il mercato dei dati personali nel Belpaese.
È possibile sottrarsi a questo Grande fratello informatico a fine di lucro? In teoria sì. Sul sito della Iab, per dire c’è una guida dettagliata e semplice per cancellare tutte le sentinelle elettroniche che cercano di installarsi nei nostri computer e per imparare a far sparire, per quanto possibile, tutte le tracce elettroniche che lasciamo senza volerlo nella nostra lunghissima scia virtuale su computer e tablet. Ma c’è poco da stare allegri. Anche i dati di chi “sparisce” dall’etere volontariamente, volatilizzandosi in una sorta di limbo informatico, sono merce che vale oro per chi ha come obiettivo commerciale il target – a suo modo ambitissimo – dei “desaparecidos” del web.


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