C’era una volta il Gruppo 63

by Sergio Segio | 5 Giugno 2013 6:45

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Non una celebrazione, per il Gruppo 63 sarebbe una contraddizione in termini. Ma convegni sì, sugli anni Sessanta, e poi mostre con le opere dei pittori che fiancheggiarono i neoavanguardisti, concerti dei compositori che fecero da battistrada al loro sperimentalismo linguistico, all’ostilità verso il neorealismo declinante, la sua etica e la sua estetica, ai metaforici cazzotti sferrati sui volti di Giorgio Bassani e di Carlo Cassola. In ottobre ricorrono i cinquant’anni dal primo convegno di una pattuglia di giovani scrittori all’Hotel Zagarella di Solanto, a pochi passi da Palermo. Sul modello dei loro più maturi colleghi tedeschi Günter Grass e Hans Magnus Enzensberger, animatori del Gruppo 47, si denominarono Gruppo 63. Ma aspettando la ricorrenza autunnale, qualcosa già si muove. Francesco Muzzioli, per esempio, ha pubblicato Il Gruppo 63. Istruzioni per la lettura (Odradek, pagg. 232, euro 18). Mentre tornano in un unico volume due antologie, una di testi e una di saggi critici, uscite in tempi diversi. Il volume s’intitola Gruppo 63 (Bompiani, pagg. 945, euro 19,50) ed è curato da quattro protagonisti di quella vicenda, Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani, per la parte dei testi, Renato Barilli e Angelo Guglielmi, per quella critica, più un saggio di Umberto Eco uscito nel 1964.

Balestrini, classe 1935, poeta, scrittore, fu presente a tutti i convegni che ogni anno, fino al 1967, vennero promossi dal Gruppo 63. Da Alfredo Giuliani ereditò la direzione di Quindici, la rivista che fra il ’67 e il ’69 fu un punto di raccolta della neoavanguardia (ora negli Oscar Mondadori esce Antologica, una raccolta di suoi versi dal 1958 al 2010).

Balestrini, il Gruppo 63 fu un gruppo?

«No. Intanto fu un’esperienza brevissima. Per come ne parlano i suoi detrattori sembra che sia durata per tutti questi cinquant’anni. E invece a guardarla ora mi pare sia esistita appena per poche ore».

Be’, organizzaste un convegno l’anno per cinque anni…

«È vero. Ma non ci siamo mai stretti intorno a un manifesto, né ci siamo dati strutture. Eravamo troppo diversi l’uno dall’altro».

Diversi, ma solidali.

«Avevamo posizioni differenti su tanti punti. Prenda quelle di Sanguineti e Barilli sui rapporti con il marxismo. C’erano più divergenze al nostro interno che con coloro che contestavamo. Ma ci teneva legati una moralità di fondo. Non eravamo competitivi, o almeno non lo eravamo quanto l’editoria rende oggi competitivi gli scrittori ».

Il Gruppo 63 deve la sua denominazione a un musicista, Luigi Nono.

«Ci occupavamo di musica perché non eravamo affatto interessati alla produzione letteraria contemporanea. I nostri riferimenti erano Stockhausen, Boulez, Berio, Nono. Nel 1962 ero stato alle Giornate della nuova musica organizzate a Palermo da Francesco Agnello. Luigi Nono presentava Cori di Didone, tratto da Ungaretti. E fu lui a suggerire il modello del Gruppo 47 e le loro riunioni periodiche in cui ogni scrittore leggeva le proprie opere e da lì si animavano discussioni. Agnello propose di ospitarci per il convegno dell’anno successivo».

Veniamo ai contenuti. Non vi interessava la novità per la novità, anzi proponevate una rivisitazione critica delle avanguardie del passato. Il passato meglio del presente?

«La letteratura degli anni Cinquanta ci appariva in continuità con la tradizione del primo Novecento. Questo le impediva di riconoscere le tante rotture verificatesi:

l’industrializzazione, l’emigrazione, le città che crescevano caoticamente, la lingua che diventava patrimonio comune. Noi avevamo la fortuna di assistere a questi sconvolgimenti, ma gli scrittori parlavano di cose che non esistevano più, con una lingua che nessuno più parlava. E allora guardavamo alle insofferenze delle avanguardie storiche. Cercavamo qualcosa nel passato che ci permettesse di essere contemporanei ».

I vostri bersagli polemici erano Bassani e Cassola. Perché proprio loro?

«Erano due esempi, se vuole erano capri espiatori. Erano scrittori noti, vendevano molto».

Rileggendoli, darebbe lo stesso giudizio di allora?

«Erano bravi scrittori, secondo me più Bassani di Cassola. Ma fuori registro. Non potevamo considerarli ancora dei classici. Tomasi di Lampedusa, che attaccammo molto, a suo modo era già un classico ».

Il neorealismo era ormai esaurito. Eppure continuava a essere nel vostro mirino.

«La letteratura era una cosa, altra il cinema. Pratolini raccontava il proletariato in modo paternalistico, non facendolo parlare con la sua voce. Al contrario, De Sica e Rossellini ci apparivano molto più aderenti all’Italia del dopoguerra».

Fra i vostri bersagli mettevate anche «lo striminzito orizzonte

critico». A chi vi riferivate?

«La critica era stretta fra le propaggini del crocianesimo, che puntava sull’assolutezza della parola poetica, e l’apologia dell’impegno, di una letteratura al servizio del progresso».

La gran parte di voi era comunque orientata a sinistra.

«Sì, ma nessuno di noi pensava che bastasse. I critici del Pci volevano una letteratura che andasse verso il popolo, che trasmettesse valori. Per noi questo non aveva senso».

Voi guardavate a Gadda. Pensaste mai di invitarlo ai vostri convegni?

«Gadda era timidissimo, il pubblico lo terrorizzava. Ma per noi rappresentava l’unico esempio di una letteratura che non considerava la lingua come specchio nel quale la realtà si riflette».

Un altro padre putativo: Luciano Anceschi.

«Lui e la sua rivista Il Verri avviarono uno svecchiamento dell’estetica. A lui affiancherei Antonio Banfi. Anceschi radunava collaboratori giovani, individuava critici e poeti. Aveva la pazienza di seguirli ».

«L’avanguardia in vagone letto »: così l’Espresso titolò la cronaca di un vostro convegno.

«L’espressione fu coniata ironicamente da Eco. Ma fu usata per accusarci di essere un gruppo di accaniti arrivisti che volevano acquisire posti e potere. Noi avevamo tutti un posto. Eravamo professori universitari, redattori di case editrici, lavoravamo in tv, quel che facevamo in letteratura lo facevamo senza l’idea di dover concorrere a qualcosa».

Che rapporti avevate con i giornali?

«A un certo punto si aprirono le porte della terza pagina del Corriere della Sera. Vennero ospitati Eco, Guglielmi, Barilli. Ma durò pochissimo».

E con le case editrici?

«Molti di noi lavoravano da Bompiani o da Einaudi. Ma fu soprattutto Feltrinelli a mostrare sensibilità. Giangiacomo era lungimirante come pochi: pubblicava Pasternak e Tomasi di Lampedusa, ma anche i nostri romanzi».

L’establishment vi guardava come pericolosi antagonisti.

«Contro di noi si scatenarono Montale, Cecchi, Bo. Quando uscì Capriccio italiano di Sanguineti ci fu un linciaggio. Le accuse erano e sono monotone: sono illeggibili, non hanno pubblicato niente. Ma Eco, Arbasino, Manganelli, Malerba, Sanguineti e altri ancora non sono fra gli scrittori più importanti di questi cinquant’anni? Poi si aggiunge: in fondo Manganelli non aveva molto a che fare con loro. Arbasino neanche. Insomma, il Gruppo 63 era troppo o non era nulla. Detto questo, eravamo comunque un paese migliore».

Che vuol dire?

«Si aspirava a trasformarlo questo paese anche attraverso la letteratura. Con il Sessantotto sono molti i punti di contatto: la critica al sistema universitario, per esempio. Tutto questo si è perso: il rifiuto dello Stato di rinnovarsi, Piazza Fontana, la lotta armata, il terrorismo. E siamo arrivati dove siamo».

 

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