Brodskij a Venezia e i versi come acini d’uva
C i eravamo trovati in un ristorante veneziano che non ricordo. Ma ricordo come eravamo seduti. Da una parte Susan Sontag e Brodskij, dall’altra la mia amica Christiane e io. Susan e Iosif erano curiosi, sospettosi, taglienti, anche sarcastici. Qualcuno doveva averli convinti, con argomenti non infondati, che l’intellettualità italiana soffrisse di una inguaribile sudditanza verso l’Unione Sovietica. Iosif parlava con la furia compressa di chi sa, Susan con l’ardore di una novizia dell’antisovietismo. Ma con me sfondavano una porta aperta. Se ne accorsero, con sollievo, nel giro di pochi minuti. Al tempo stesso, da parte mia, tentai di rendergli chiaro che le loro nozioni sulla politica italiana erano piuttosto rudimentali. E non dovevano dispiacersene troppo. Che cosa fossero e in che cosa si distinguessero il Pci e il Psi era materia esoterica per chiunque non fosse nato e cresciuto in Italia. Perché se ne parlava? Perché era in corso la ormai famosa e a quel tempo, in Italia, famigerata Biennale del dissenso. Era un nebbioso dicembre del 1977 e nessuno al mondo pensava che l’Unione Sovietica, nel giro di una dozzina di anni, sarebbe diventata uno dei più ingombranti relitti della storia.
Quanto a me, avevo una motivazione egoistica. Mi trovavo a Venezia non tanto per la Biennale del dissenso, a cui comunque partecipai, con qualche profitto, quanto per incontrare Brodskij. Avevo letto di lui quel poco che era accessibile in traduzione. E mi sembrava disegnasse il profilo dello scrittore che, nelle mie fantasie, non poteva non esistere nella lingua del Paese che era stato di Mandel’štam, della Cvetaeva, della Achmatova.
Nel corso di quella nostra prima schermaglia devo aver detto due o tre frasi che hanno persuaso Iosif dell’inutilità di un contrasto. Fra noi il problema era l’opposto: eravamo troppo d’accordo, senza bisogno di parlare. Non tanto nelle idee, quanto nei gesti, nella fisiologia, nella reattività. «Non ho principi, ma nervi», avrebbe scritto Brodskij in Fondamenta degli Incurabili.
Da quel giorno abbiamo avuto sempre l’impressione che i nervi dell’uno proseguissero in quelli dell’altro. Così passammo a elaborare i materiali di una teoria della gemellità, a partire dalle nostre date di nascita, a sei giorni e un anno di distanza, sotto il segno dei Gemelli. Essenziale era che i nostri primi ricordi fossero intinti nella polvere delle macerie di guerra e uno dei primi stupori infantili fosse per le scatolette di Corned Beef distribuite dagli americani. Poi si aggiunsero altre convergenze, allarmanti per la precisione. Libri, ragazze, film. Il mento di Robert Mitchum. L’erotismo neorealista. Iosif aveva un modo di muoversi per Venezia come un gatto, con una sicurezza e una intimità ignote ai non pochi veneziani che conoscevo, eccetto a uno: il mio adorato amico Enzo Turolla, con cui mi ero abituato ad aggirarmi per quelle calli e quei campi, generalmente fino alle tre o alle quattro di notte, spesso finendo seduti a chiacchierare sulle sedie di caffè chiusi da ore.
Così non mi sorprese l’inizio della poesia dedicata da Brodskij «a Roberto e Fleur Calasso». Non poteva che essere una poesia veneziana.
Venne poi il congedo, il primo di tanti. Quel giorno era apparso un articolo di Vittorio Strada che mi aveva sommamente irritato. Vi si parlava della Biennale del dissenso come di una «festa di beneficenza» e la si assimilava a una manifestazione culturale in Uganda. Evidentemente non bastava essere vili, occorreva aggiungere qualche tocco beffardo. Eravamo seduti al caffè Florian e descrissi in dettaglio a Iosif l’articolo e i suoi sottintesi. Lui ascoltava come se stesse già covando qualcosa. Poche ore dopo ero a Milano e trovai sul mio tavolo la risposta di Brodskij a Strada, scritta nella sua migliore vena sferzante. La tradussi e la portai subito al «Corriere della Sera», provvista di un cappello di poche righe in cui provavo a presentare Brodskij, allora pressoché ignoto in Italia.
Nel frattempo Susan aveva avvertito Bob Silvers a New York del pezzo di Iosif. E, prima ancora che il «Corriere» lo pubblicasse, Bob mi telefonò per avere notizie. Ci eravamo già conosciuti a New York — e ammiravo le sue molte virtù, fra le quali il culto dell’attendibilità. Così provai a raccontargli tutto da capo: i presupposti della Biennale nella guerra in corso fra Pci e Psi, la pavidità italiana verso l’Unione Sovietica, eccetera. Bob ascoltava con attenzione, come se si trattasse dell’evento caldo del momento. Chiese ulteriori precisazioni. Risposi. Poi sentii una pausa, rotta da queste parole: «But who is Vittorio Strada?».
Sono storie che sembrano appartenere a un âge à jamais révolu. Ma vorrei concludere con qualcos’altro. Sono grato a Maria Brodsky per avermi fatto conoscere un brevissimo filmato dove si vedono Evgenij Rejn e Brodskij sul Ponte di Rialto. Rein tiene in mano un grappolo d’uva piuttosto imponente e Joseph sta di fronte a lui. Sullo sfondo, il Canal Grande. Rejn vuole offrire l’uva ma Joseph non vuole che gli sia passata in mano. Vuole che Rejn gli getti un chicco da prendere al volo in bocca. Il primo tentativo non riesce. Ma al secondo il chicco scompare nella bocca di Iosif che si chiude come quella di un felino. Essenziale è la serietà e la concentrazione di Brodskij in quei pochi secondi. Gioca, ma con la gravità di un bambino che vuole rendersi il gioco sempre più difficile.
Allo stesso modo, Iosif non amava il verso libero e venerava la metrica rigorosa. La rima poteva essere come il chicco preso al volo. E forse più succoso. Per me — e per alcuni altri — è impossibile separare l’immagine di Iosif da quella grazia e da quella trascinante determinazione infantile che gli permettevano immancabilmente di far breccia con la parola, anche quando si trattava di un progetto azzardato come quello che poi divenne la Fondazione Brodskij.
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