Addio al “modello turco” la Primavera di Istanbul mette in crisi il mondo arabo

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Queste manifestazioni che potrebbero rappresentare l’inizio di una “primavera turca” costringono il premier a ridisegnare l’immagine e il ruolo della Turchia, tenendo conto delle sue pretese di servire come esempio “islamo-capitalista” a quei Fratelli musulmani che hanno conquistato il potere in Egitto e Tunisia.
Paradossalmente, però, se per quei regimi arabi nati con le recenti rivoluzioni la Turchia è diventata il modello di sviluppo economico da imitare, le rivolte di Istanbul, Smirne e Ankara evocano le manifestazioni del Cairo contro l’autoritarismo del presidente Morsi o quelle di Tunisi dopo l’assassinio dell’avvocato laico Chokri Belaid da parte di un gruppo islamico radicale. La prosperità turca si è infatti scontrata a diversi ostacoli interni e regionali, che hanno rotto gli equilibri di quella “democrazia islamica” che predicava Erdogan, spingendo il Paese verso una deriva dittatoriale e un coinvolgimento sempre più rischioso nella guerra in Siria.
Sul piano interno, ad allontanare le classi medi democratiche che avevano votato l’Akp, e a farle scendere nelle piazze, sono state sia le leggi recentemente annunciate per limitare severamente la vendita di alcol, sia la volontà di Erdogan di presentarsi nel 2014 alle elezioni presidenziali (e, una volta eletto, trasformare la costituzione in modo da gestire da solo tutto il potere). Ora, il successo dell’Akp fu provocato dal rifiuto del popolo turco dell’onnipotenza dei militari, i quali dagli inizi della repubblica, e con un guanto di ferro, avevano controllato ciò che i turchi stessi chiamano “lo Stato profondo”.
A queste ragioni interne di scontento e di timore si sono aggiunti gli interrogativi sui rischi che fa correre alla Turchia un suo coinvolgimento sempre più importante nel conflitto civile che sta dilaniando la Siria e che ormai sconfina un po’ ovunque dal suo territorio.
Basterebbe citare il fatto che le forze del presidente Bashar al Assad hanno effettuato più volte dei provocatori bombardamenti sul territorio turco e che l’esercito di Ankara, fino a pochi anni fa sovraequipaggiato dalla Nato, è sempre stato colto di sorpresa, fino allo schieramento sul suo confine di una batteria di missili Patriot. La situazione è tanto più preoccupante che oggi gran parte dei generali dello Stato maggiore turco è in prigione, dove l’ha rinchiuso l’Akp per il ruolo svolto dai militari nello “Stato profondo”.
La Turchia si trova confrontata a una crisi che potremmo definire di “crescita” e bisognerà vedere se riuscirà o meno a far coincidere le sue ambizioni con le realtà economiche, sociali e politiche del momento. E soprattutto se potrà mantenere la sua compattezza interna e il suo ruolo di Paese dominante tra Paesi vicini, in un ambiente regionale profondamente minacciato dal potenziale di destabilizzazione della crisi siriana.
Detto ciò la Turchia è uno degli elementi chiave dell’improbabile alleanza che sostiene la rivoluzione siriana e che è composta da attori diversissimi tra loro. Tra questi si contano infatti le petro-monarchie del Golfo (all’interno delle quali c’è l’enorme conflitto tra Qatar e Arabia Saudita per il dominio del mondo arabo), le democrazie occidentali ma anche Israele. A loro si oppone il fronte dell’alleanza pro-Assad, nel quale si tengono per mano la Russia, l’Iran, parte dell’Iraq e l’Hezbollah libanese. In questo complicato scenario geopolitico, la Turchia potrebbe interpretare il ruolo del gendarme con l’intento di garantire alla regione una pax turca. Sempre che piazza Taksim non si trasformi in piazza Tahrir.


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