Canti e palloni bianchi per Mandela La figlia: «Media stranieri avvoltoi»

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PRETORIA — Gli «avvoltoi» stanno appollaiati sotto le tende e le antenne bianche, sudano al ronzio dei generatori su un lato di questa strada che non è mai stata così affollata. Per tutto il giorno davanti al cancello del Mediclinic Heart Hospital ha sostato, cantato, danzato il popolo di Madiba. All’imbrunire la calca si fa ancora più fitta, come uno «struscio» di passanti in un’improvvisata isola pedonale. Gruppi di giovani e vecchi, alcuni con i colori dell’Anc, si lanciano in marce cantate sotto le telecamere. Questa mattina era stata la scena di famiglie con bambini, 94 palloncini bianchi (come gli anni di Mandela), piccoli cori in costume, l’Esercito della Salvezza. Questa sera è la folla di quanti prima di tornare a casa passano a salutare da lontano l’uomo che ha cambiato il Sudafrica, the Old Man che dietro quelle mura grigie rimane attaccato a un respiratore e tiene in sospeso il mondo. Lui che ritirandosi a vita privata nel 2004 aveva detto «non cercatemi, vi chiamo io», se potesse aprire una finestra si sentirebbe chiamare dalla voce potente dei ragazzi dell’African National Congress: «Mandela, sabela uyabizwa», Mandela rispondi ti stanno chiamando.

Risponde, Mandela. «Risponde» in qualche modo a chi gli sta vicino, ha detto la figlia Makazile (Maki) alla tv pubblica intorno a mezzogiorno. Reagisce al contatto, «quando gli parliamo cerca di aprire gli occhi. Ha una brutta cera, potrebbe andarsene, ma intanto è ancora lì». Una piccola retromarcia rispetto al mattino, quando le notizie sono grame: Madiba (dal nome del suo clan) è peggiorato, il presidente Zuma ha rinunciato a un viaggio all’estero, torna all’ospedale e con lui viene richiamata la famiglia. Sembra l’ultimo atto. E invece lo stesso Zuma di primo pomeriggio annuncia che «adesso sta molto meglio» della sera prima. Il nipote Mandla, il capo della tribù dei Mandela giù nell’Eastern Cape, spera ancora nel miracolo e ringrazia quanti mostrano affetto per il nonno.

La zia Maki invece, la primogenita figlia di Mandela e della prima moglie Evelyn, ha il dente avvelenato. Cappotto rosa e quattro file di perle al collo, in tv si scaglia contro i media stranieri accusandoli di razzismo: «C’è qualcosa di razzista nel comportamento dei media stranieri: davvero mi ricordano gli avvoltoi quando aspettano che il leone abbia finito di divorare il bufalo». E ancora: «Il fatto che mio papà sia un’icona globale, una delle 25 persone più influenti del XXI secolo, non significa che non si debba rispettare la privacy e la sua dignità». E ancora: «Non so come sia possibile che vengano qui e stravolgano le regole del decoro. Forse perché siamo un Paese africano?».

Maki, la prima businesswoman della famiglia (ha usato il brand Mandela per un’azienda che produce vino, ha ruoli direttivi in 16 aziende dal settore alimentare alle ferrovie), accusa i media di cercare notizie sulle condizioni del padre, dribblando i paletti ufficiali. «Questa sete di dettagli non si è mai vista quando si trattava della salute declinante di Margaret Thatcher o di Ronald Reagan». La tribù dei nipoti di Mandela (17) e dei pronipoti (14), fatta eccezione per Mandla, sembra allineata con zia Maki. Come le sorellastre, Zenani e Zindzi (figlie della seconda moglie Winnie). «Dateci un po’ di privacy». Tabù la salute di Madiba, tabù gli affari di famiglia ramificati in circa 110 aziende e protetti da una rete di almeno 24 trust. È sera quando un responsabile dell’Anc redarguisce i ragazzi di un coro che cerca le telecamere: «Siamo qui per Madiba, non per i media».

Michele Farina


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