by Sergio Segio | 26 Giugno 2013 6:08
ROMA — Bastano poche, all’apparenza inutili, novità per capire quello che succede nella politica italiana. E soprattutto nel Pd, dove la sentenza Berlusconi ha innestato un tormentone che difficilmente si esaurirà entro pochi giorni. I cambiamenti sono questi: l’organizzazione del partito e l’ufficio tesseramento verranno spostati altrove rispetto alla sede del Pd, in via Tomacelli, precisamente. Segno che l’apparato teme il precipitare delle cose e tenta di apprestare l’ultima trincea contro Matteo Renzi, tenendo lontani dall’occhio dei sostenitori del sindaco di Firenze gli ultimi luoghi del potere del partito, quella ridotta dove i maggiorenti del Pd sperano di ritrovare forze e vigore per mandare l’altolà a Berlusconi e a Renzi insieme.
L’idea che le elezioni possano arrivare, macinando mesi e aspettative, preoccupa i maggiorenti del Pd. «A questo governo per adesso non ci sono alternative», dice Guglielmo Epifani per non esasperare gli animi, che sono, a dir poco, esacerbati. Poi però il segretario si rende conto delle paure e dei malumori della base e spiega ai suoi: «Dobbiamo dire che il Pdl la deve smettere di mettere le sue bandierine. E noi dobbiamo capire che sarebbe un errore intrecciare insieme le vicende giudiziarie e quelle politiche». Il governo vacilla. Enrico Letta chiede al suo partito se è disposto a reggere l’ondata d’urto che arriverà di qui ai prossimi giorni. La risposta, ovviamente, è un sì, pronunciato da Guglielmo Epifani prima di partire per Bruxelles: «Non sarà Berlusconi a decidere le sorti del governo, ma sappi che noi possiamo reggere fino a un certo punto. Oltre non ce la facciamo. Se Berlusconi attacca i magistrati, o ti chiede delle contropartite sulla giustizia, noi non possiamo dire di sì. La nostra base è già in fermento e vorrebbe il divorzio breve dal Pdl». E non è solo la base che soffre.
L’ex presidente del Pd Rosy Bindi parla, come al suo solito, senza peli sulla lingua, e rivolge a sé medesima ma anche al suo partito questo interrogativo, retorico fino a un certo punto: «Il Pd può stare in maggioranza con un partito guidato da un leader che ha già accumulato diverse gravissime condanne, che pretende l’impunità in nome della legittimazione elettorale e non perde occasione per accusare la legislatura?». Monta l’insoddisfazione e l’argine del ritornello di Epifani — «A questo governo, per adesso, non ci sono alternative» — non sembra rassicurare troppo i militanti del Pd, e, quel che è più grave, nemmeno i dirigenti e i parlamentari. Dice Gianni Pittella, europarlamentare nonché candidato alla corsa per la segreteria del Pd: «Il silenzio del mio partito sulle esternazioni di Berlusconi contro i magistrati è imbarazzante». Veramente non di silenzio si tratta, ma di una vera e propria strategia della disattenzione. Basta leggere le parole di Epifani: «Nel momento in cui la crisi non si sta affatto risolvendo e, anzi, forse si sta aggravando, nel momento in cui ci sono tanti problemi da affrontare per il nostro Paese, sarebbe irresponsabile far saltare l’azione del governo in ragione di questi problemi giudiziari».
Ma al di là delle dichiarazioni ufficiali e di quelle ufficiose, fatte ai parlamentari per non demotivarli, l’ansia dei dirigenti del Partito democratico corre sui cellulari: scambi di opinione, ricerche di rassicurazione, suggerimenti e consigli: «Ragazzi, preparatevi, perché qui stiamo ballando», dice ai compagni di partito il neo presidente della commissione Difesa del Senato Nicola Latorre. Fassino, più ottimista, dice: «Penso che il governo tenga, noi non abbiamo nessun interesse a far saltare il banco». E il vice ministro Stefano Fassina spiega ad alcuni parlamentari amici qual è lo stato dell’arte: «Il governo tiene e noi reggiamo…per ora». Già, per ora. E poi? La parola al vicepresidente della Camera Roberto Giachetti: «E poi, o il governo fa veramente qualcosa, oppure sarà fibrillazione continua». Non conta, dunque, che Epifani continui a ripetere che «il governo non può dipendere dalle scadenze giudiziarie di Berlusconi», perché sarà inevitabile questo «maledetto intreccio» (per dirla con parole di Matteo Renzi) tra politica, governo, stabilità e giustizia. L’allarme è talmente alto che il sindaco rottamatore medita se scendere o no in campo per la corsa alla segreteria, finora la bilancia propendeva per il sì, ma se gli eventi dovessero subire un’accelerazione, se il governo dovesse cadere anzitempo, perché affrettarsi, dividersi e combattere per una poltrona che, inevitabilmente, verrebbe assegnata a Matteo Renzi?
Maria Teresa Meli
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