by Sergio Segio | 22 Giugno 2013 17:20
Sono nata nel 1975. Quando ho cominciato a frequentare le elementari, nel 1981, in Brasile c’era ancora la dittatura militare. A scuola si soffriva molto per questo, anche se erano ormai gli ultimi effetti residuali, «figli» del golpe del 1964. Ricordo per esempio il fatto che ci facessero cantare l’inno nazionale a squarciagola, tutti in fila come soldatini, nel cortile d’ingresso, prima di cominciare le lezioni. Ogni mattina, di ogni settimana per tutto l’anno. Oppure le interminabili lezioni di Educazione civica, una materia che aveva come unico obiettivo, in realtà, non quello di creare una coscienza civile ma piuttosto quello di inculcare nelle teste dei bambini una modo di pensare totalmente a destra, in perfetto allineamento con quelli che erano i principi della dittatura. Il mio professore, però, era un’altra cosa. Già avanti con gli anni ci inondava di libertà. Rammento che, quando entrava in classe, il suo primo gesto era quello di aprire una porta della nostra classe che affacciava su un giardino. Poi si sedeva, dispiegando il giornale e ci diceva «fate quello che volete». Io non mi rendevo conto e non capivo perché non ci desse le lezioni di Educazione civica. Eppure in quel modo tutto speciale il mio professore stava protestando regalandoci una grande lezione di resistenza. Contro la dittatura del pensiero unico. Ma veniamo adesso ai fatti del 2013. Sono passati quasi quarant’anni da allora. Oggi sono madre – ho un figlio di poco più di un anno – e a differenza della maggiore parte delle donne brasiliane non ho la tata. Il che mi ha costretto a seguire tutte le manifestazioni dal divano di casa mia. Vi confesso, anche una cosa: non pensavo, all’inizio delle proteste, che sarebbero cresciute a tal punto. E come me credo che l’intero Paese sia stato sorpreso.
Dove era nascosta tutta questa rabbia, questa polvere da sparo che è esplosa? Dov’era prima tutta questa massa di persone insoddisfatte, scontente non tanto per l’aumento nei prezzi dei biglietti dei trasporti pubblici – che tra l’altro è stata l’unica rivendicazione chiara sin dall’inizio e, per di più, accolta dalle autorità – ma con la tipica rabbia di chi appartiene ad un certo partito? Perché c’è più rabbia nei confronti di un partito in particolare e non, invece, di altri? Nell’ultima manifestazione qui a San Paolo, quella di giovedì notte, quella che ha riunito in tutto il Brasile oltre un milione di manifestanti, abbiamo assistito all’aggressione fisica contro i militanti della sinistra da parte di chi rivendicava il carattere «apartitico» del movimento. Aggressioni arrivate da «difensori della giustizia» che, nel caso, scendono in piazza per difendere il Paese dalla corruzione, intendendo però quest’ultima come una causa astratta che può includere tutto e il contrario di tutto. Eccetto loro stessi. La corruzione esistente è legata ai corruttori, che hanno nomi e cognomi. Però ho una domanda da fare: perché nessuno ha scritto nulla sinora, neanche un manifesto piccolino chiedendo all’imprenditore X o all’imprenditore Y di vergognarsi e chiedere pubblicamente scusa? Io, dunque, resto in attesa, come facevo da bambina, in attesa che arrivi presto un professore che mi apra di nuovo la porta che dà sul giardino, come a scuola. Spero che sia la presidente Dilma Rousseff, in modo da evitare al mio Brasile un inutile capovolgimento di valori e la totale mancanza di libertà.
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