Il popolo del futébol non vive di solo calcio

by Sergio Segio | 22 Giugno 2013 17:19

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«Copa para quem?», Coppa per chi? A cosa servono Confederations Cup e Mondiale, per non parlare delle Olimpiadi, se il Brasile, dopo il Grande Sogno di Lula e, in parte, di Dilma, si trova ora alle prese con una crisi economica che mette paura e la gente non vuole stadi, ma Salute e Istruzione? Non ci sono soltanto i poveri in piazza, c’è anche quella media borghesia che, grazie alla sinistra al potere, aveva trovato un nuovo benessere. Che si sentiva inserita in un contesto sociofinanziario finalmente all’altezza delle nazioni più ricche, poteva guardare gli Usa non più dal «cortile», ma dai piani alti. Poi, è cominciato il crollo: e la scintilla, come spesso accade, è scoccata per un lieve aumento dei prezzi dei trasporti pubblici a San Paolo. Quella piccola onda è diventata, oggi, un oceano di protesta, di rabbia lacerante, anche di violenza: da San Paolo a Rio de Janeiro, da Belem a Ribeirao Preto, da Brasilia a Salvador a Porto Alegre il «movimento» continua a crescere. La Fifa sostiene che questa Confederations non è a rischio (e ogggi si gioca ItaliaBrasile… ), ma la Coppa del prossimo anno potrebbe saltare: per motivi di sicurezza, le nazionali hanno paura, non si sentono protette, i giocatori ormai non escono più dagli alberghi. Certo, ora dipende tutto da Dilma Rousseff, l’ex guerrigliera che sfidò, guardandoli negli occhi, i criminali in divisa che, durante gli anni bui della dittatura, la condannarono, e la torturarono, dopo un processo farsa: la presidentessa deve intervenire, dare risposte alle accuse di corruzione di alcuni membri del suo governo, di certe sue presunte «spese folli» in occasione dei viaggi di rappresentanza; deve ritornare a parlare al cuore della gente, riprendere in mano il lavoro cominciato da Lula, l’ex operaio metallurgico, leader del Partito dei Lavoratori (chiamato PT, Partido dos Trabalhadores), capace di dare una
svolta a sinistra, quel cambio di rotta forte e orgoglioso: più che gli impianti sportivi faraonici interessa il progetto Fame Zero da portare a termine, conta non perdere i posti di lavoro, dare agli studenti il futuro. Nel 1984, Lula e Dilma furono tra i protagonisti della prima, grande rivolta civile. Era la stagione del movimento Diretas Jà per l’elezione diretta del presidente della Repubblica (che diventò Tancredo Neves dopo la lunga dittatura militare), il 16 aprile di quell’anno scesero in strada, a San Paolo, da Praça da Sé fino a Vale do Anhangabaù, millecinquecento persone. Mai visto niente di simile. Fino a questi giorni. Non solo la capitale paulista, ma tutte le altre grandi metropoli, e non solo: i paesi, i sobborghi, le zone aride. Tutti uniti da una «indignazione» che non ha colore, infatti la gente marcia urlando «Senza Partiti!». Un brutto colpo per il PT, rimasto troppo «disattento», incapace di cogliere gli umori della nazione. Si è chiuso nei palazzi di vetro perdendo di vista la realtà del quotidiano, il disagio, sì quel profondo e lacerante senso di disagio. Nell’84 protagonisti divennero anche i giocatori, soprattutto quelli del Corinthians, con in testa il dottor Socrates: fu proprio la «democrazia corinthiana», il tentativo di autogestione da parte di una squadra di calcio, a dare inizio alle rivolte, pugno chiuso e sulle magliette l’invito ad andare a votare. La storia non è cambiata: adesso, grazie ai social network, calciatori come il fuoriclasse Neymar, l’attaccante Hulk, Dani Alves e David Luiz twittano a sostegno di manifestanti. A fare una brutta figura è stato Pelé, sempre più «posterdipelé», che ha dichiarato: «Per favore, dimentichiamo la confusione che c’è nel nostro Paese e pensiamo soltanto alla Seleçao, che è il nostro sangue, la nostra vita». Apriti cielo! Il Mito è stato duramente criticato, soprattutto da un altro ex campione, Romario, nelle vesti di deputato del Parlamento nelle file del Partito Socialista: «Pelé dice solo delle enormi bestialità, è un poeta soltanto quando sta zitto. Io sono orgoglioso della mia gente. Avanti così!».
No, non c’è pace per Dilma. Tutto è nelle sue mani, non solo il mondiale, ma qualcosa di molto più importante: la serenità, fatta di certezze e di avvenire, di tutto un popolo.

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