Quei 22 milioni di italiani che fanno la carità

by Sergio Segio | 21 Giugno 2013 7:40

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Non per tutti la carità è sostegno ai deboli, ai poveri e agli emarginati. Non per tutti è generosità, dialogo, ascolto e altruismo. Ci sono quelli — non molti per la verità — che associano alla carità il senso di colpa, l’ipocrisia o addirittura il narcisismo. Ci sono i (molto o abbastanza) favorevoli (7 su dieci) e i contrari (3) che la ritengono un modo superato di affrontare i problemi sociali se non persino una pratica suggerita da spirito reazionario o da tradizionalismo conservatore. Pur tuttavia, l’Italia resta un paese «cuore in mano», secondo l’indagine che AstraRicerche ha compiuto per conto della milanese Casa della Carità di don Colmegna: 22 milioni di cittadini, cioè il 53,6 per cento della popolazione tra i 15 e i 69 anni, danno concretamente un aiuto ai poveri, quasi 10 milioni si dedicano al volontariato e 8,5 milioni offrono denaro regolarmente a organizzazioni impegnate nella carità.
Certo, il confronto con il precedente sondaggio, realizzato nel 2005, mostra quanto ha inciso la crisi nel calo della generosità, se è vero che circa un quarto degli italiani dice di «non riuscire più ad aiutare gli altri, avendo gravi difficoltà economiche». Nel giro di pochi anni è indubbiamente diminuita la fiducia nel ruolo sociale della carità: per esempio, è molto calata la convinzione che si tratti di un modo per combattere l’ingiustizia. Il giudizio positivo è precipitato: l’80 per cento che nel 2005 assegnava alla carità un voto oscillante tra l’8 e il 10 si è ridotto oggi al 54. Se per una quota crescente di persone la qualità delle «opere di bene» va valutata caso per caso, significa che gli italiani si sono fatti più sospettosi (dal 2 per cento al 18).
Venendo agli stati d’animo sulla vita sociale e ai conseguenti comportamenti individuali, piace molto l’aggettivo «indignato», in cui si riconosce la metà dei cittadini. La frase più gettonata (specialmente dai maschi) è: «Sono indignato per le troppe ingiustizie della nostra società». Non nel Triveneto, però; e più tra gli atei e gli agnostici che tra i credenti, per i quali l’indignazione non sembra un sentimento gradito. È poi curioso che gli atei si dichiarino più impegnati nel volontariato dei credenti non religiosi, mentre non stupisce che il Nord superi (ma non di molto) il Sud in questo tipo di engagement.
Una persona su cinque fa la carità a chi la chiede per strada, più al Sud che al Nord: non male, ma otto anni fa quelli che reagivano positivamente ai mendicanti erano il doppio. Siamo sempre lì: colpa della crisi o di una sorta di sfiducia ontologica negli altri e in particolare nelle istituzioni? L’identikit dell’attivo-tipo nella carità è il seguente: preferibilmente pensionato, residente in città né troppo piccole né troppo grandi (fra i 30 e i 250 mila abitanti), laureato, religioso praticante. Troppo facile osservare che viceversa i non attivi sono giovanissimi, studenti, residenti in piccoli centri, poco importa se agnostici o credenti.
Provate a chiedere agli italiani un’opinione sulle possibili soluzioni per debellare la povertà: vi sentirete rispondere dai più che «il problema può essere risolto alla radice solo cambiando la società e l’economia». Rovesciare il sistema era uno slogan del ’68, ora è senso comune. Sono meno quelli che auspicano invece un impegno individuale e quotidiano «per combattere l’ingiustizia e l’emarginazione». Altri sostengono con decisione che tocca allo Stato e non al singolo cittadino occuparsi degli emarginati. Più o meno la stessa percentuale (sul 26) di coloro che accusano la carità di essere spesso «un business interessato, che arricchisce molta gente».
C’è una classifica delle categorie che secondo gli italiani vanno aiutate in caso di necessità: al primo posto i bambini e a scalare i malati, i disabili, gli anziani, chi ha subito catastrofi, disagiati psichici, poveri eccetera. Agli ultimi posti: immigrati, rifugiati e perseguitati politici, detenuti ed ex detenuti, prostitute, zingari e rom. Il moralismo, il distinguo etnico e il pregiudizio sembrano prevalere sullo slancio civico, specialmente al Nord. I meridionali, per esempio, sono nettamente più solidali verso i rom.
Ma il dato che stupisce, e anzi sconvolge, nell’analisi diretta dal sociologo Enrico Finzi, è la diminuzione (quasi il dimezzamento in otto anni) degli italiani che si dicono «religiosi e praticanti» (passati dal 44,5 al 23 per cento) a favore degli agnostici e dei credenti non praticanti. Se è così, il fenomeno meriterebbe un serio approfondimento. Non per questo, per fortuna, siamo diventati un popolo a maggioranza cinica. Anche se i sei caratteri-tipo non sono rassicuranti: nell’atteggiamento verso la carità vincono i Mediocri (tiepidi e poco informati). Secondo posto, a pari merito, per Aridi (drasticamente sfavorevoli) e Generosi (molto attivi e protesi alla giustizia sociale). Seguono gli Egoisti (la classe media), gli Appassionati (entusiasti, credenti ma non per forza praticanti) e, ultimi, gli Altruisti, quelli che pur essendo prodighi odiano l’assistenzialismo programmatico.

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