La redditività è assoluta, esige da ogni essere di produrre di tutto ma di costare poco o niente

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L’ONDA ANOMALA DI SUICIDI NELLA RECENTE CRONACA, NON È EPIFENOMENO DEL BEL PAESE. IN FRANCIA, IL SUICIDIO FA PIÙ DI DIECIMILA MORTI ALL’ANNO, senza contare i tentativi, stimati a circa 150 000 all’anno. Eppure, pochissimo è stato fatto di fronte a questa strage all’ultimo posto delle priorità della salute pubblica. Che volto ha, che regola ontologica anima questa nuova società che spinge al suicidio? Ecco la tesi controcorrente del filosofo francese Jean-Paul Galibert in Suicide et Sacrifice. Le mode de destruction hypercapitaliste (Lignes 2012): il sistema attuale -«l’ipercapitalismo» porta al suicidio: è «suicidatore».
Il pamphlet veloce, che va a ruba a Parigi e non è stato ancora tradotto in Italia, non è un trattato di sociologia, bensì un’ introduzione politica engagée alla nostra nuova società del sacrificio. Il vecchio capitalismo era ancora fondato sulla produzione, l’«ipercapitalismo» -, concetto coniato dall’autore, è un modo di distruzione. Svuota, chiude, licenzia. Si fonda sull’«hypertravail» (l’iperlavoro): un doppio modo di sfruttamento totale, dove il consumatore accetta di lavorare per il venditore, per poi comprare la merce; cioè, regala due volte il valore della merce, in cambio di nulla. Un sistema che vende un’immaginario a quello che immagina, nella scia delle scoperte di Guy Debord sulla società dello spettacolo, a cui questo libro è ispirato. Il surlavoro diventa in questo sistema l’unica chance di «esistere» perché unico modo di accedere all’«iperreale».
Nell’ipercapitalismo, la redditività è assoluta, esige da ogni essere di essere assolutamente profittevole, cioè di produrre di tutto ma di costare poco o niente. Smantellato tutto l’apparato produttivo, l’impresa più profittevole è quella che sopprime più salari, opera più licenziamenti e disperazione… Cosa si diventa oggi senza stipendio? Non è il problema del sistema, tutto al più un problema personale, psicologico. L’esistenza non è mai garantita: è insieme fonte del valore dell’oggetto e oggetto di tutte le lotte. Ma una società che inizia per fare coincidere la realtà alle cose inanimate, distruggendola, finisce necessariamente per distruggere la realtà dentro le persone.
Essere suicidario, tra l’altro, non implica necessariamente un passaggio all’atto. La maggioranza dei suicidari, sopravvive in una «vita senza esistenza», ritmata dall’ipersfruttamento. L’ipercapitalismo è ultraliberale, lascia la scelta tra vita ipersfrutatta o l’immolazione, la sua formula tacita è «ognuno è libero di distruggersi».
Il suicido d’altronde è comodo, è un’omicidio senza colpevole, perché la vittima assicura se stessa la propria distruzione. Autorizzate a vivere, sono difatti solo le esistenze assolutamente redditizie, produttori e lavoratori. Cosa fare allora degli operai, dei disoccupati, dei poveri, di quelli che non possono più consumare? Perché non farne, si chiede Galibert, dei suicidati? Dietro l’apparente insostenibilità delle domande, il filosofo denuncia il cinismo totale dell’ipercapitalismo che opera «un triage selettivo tra le esistenze che consacreranno la loro esistenza all’iperlavoro, e quelle che saranno distrutte».
In prospettiva storica, questa nuova fase del capitalismo dove il suicidio è il modo di selezione ideale, apre ad una fase di obbedienza assoluta: «la prima obbedienza assoluta dal periodo della schiavitù : obbedire a tutto o morire» . Per questo motivo l’indignazione è l’esatto contrario del suicidio. L’unica via per uscire da una società suicidatrice, come richiama Galibert: la rivolta collettiva, planetaria e nonviolenta, non a caso vera bestia nera del ipercapitalismo.
L’analisi, per certi tratti violenta, è intelligente e acutissima. Eppure, manca una riflessione sugli aspetti più profondi e invisibili di questa crisi antropologica di dimensione storica. Perché l’identità umana cede di fronte ad una semplice perdita del lavoro? E la rivolta non è forse meglio dell’autodistruzione?


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