L’ideologia degli identici in lotta contro la modernità
Sul discrimine tra rivoluzione e reazione, assai poco evidente, contrariamente a quanto si possa pensare, non molti sono disposti a soffermarsi. Che cosa renda un progetto politico espressione di un’intenzione chiaramente volta verso la trasformazione progressiva della società e cosa, invece, manifestazione del suo contrario, è fatto non sempre così semplice nell’età del consenso e della partecipazione delle masse ai processi decisionali. In questa chiave la funzione dell’antisemitismo va letta con lenti nuove o, comunque, secondo logiche non scontate. È l’approccio di un autore come Francesco Germinario, studioso della galassia del risentimento antigiudaico della quale, in più di vent’anni di studio, ha saputo dare letture non scontate. Nella sua ultima opera, Antisemitismo: un’ideologia del Novecento (Jaca Book, pp. 247, euro 24) la sua proposta è quella di offrire al lettore «un’interpretazione dell’antisemitismo quale universo ideologico rivoluzionario autosufficiente e autonomo, ma in stretto dialogo con le altre culture presenti sul mercato politico».
Il tessuto analitico del libro si svolge quindi intorno a questa premessa. L’antisemitismo è teorizzato come una compiuta versione della critica della società borghese liberale, articolata su basi apocalittiche. Come tale si situa in competizione con il socialismo, poiché del pari ad esso condivide la richiesta del superamento degli ordinamenti esistenti attraverso una rottura rivoluzionaria. Del socialismo, tuttavia, non condivide il progetto di istituzione di una società di eguali, contrapponendogli il discorso declinato su una comunità di identici, quella fondata dall’appartenenza di razza. Un’analisi, quest’ultima, che si incrocia in più punti con quella fatta già a suo tempo da Zeev Sternhell e, in misura diversa ma non meno efficace, da autori come Emilio Gentile e George L. Mosse. Le coordinate di Germinario sono chiare, non indulgendo in alcun revisionismo di sorta, semmai volendo contribuire a fare chiarezza, e quindi distinzione, tra vulgate contrapposte ma, in alcuni punti, involontariamente interagenti poiché rivolte al medesimo pubblico.
Fobie cospirazioniste
L’antisemitismo in età contemporanea ruota intorno a tre assi. Il primo è il convincimento cospirazionista, ossia che «la storia umana sia attraversata da una cospirazione dell’ebraismo, volta a conseguire il potere assoluto sull’umanità». La storia medesima è il racconto del dipanarsi di questo disegno, al quale si accompagna l’inesorabile corruzione delle società non ebraiche, sempre più impigliate dentro la tela di ragno tessuta dalla decadenza borghese, prodotto delle trame giudaiche. Il secondo elemento, rafforzativo del primo, è la convinzione che l’epoca borghese, la modernità liberale e i sistemi democratici, corrispondano all’«ebreizzazione del mondo», ossia costituiscano la maturazione definitiva del potere ebraico, prossimo ad emergere in tutta la sua violenta e tracotanza, come sistema di dominio assoluto della vita delle comunità. Il terzo punto è l’assunto che l’ebraismo non sia una religione, e neanche una cultura storica, bensì una «razza», dotata di una sua coerenza interna, derivante dalla condivisioni di caratteristiche biologiche valorizzate dal fatto stesso di costituire un popolo disperso e come tale capace di adoperarsi ai quattro angoli del mondo a proprio favore.
Il semitismo, in quest’ottica, è al contempo un soggetto di antichissimo insediamento, e come tale dotato di una sua malefica tradizione, che accomuna invariabilmente coloro che lo praticano, e una figura integralmente aderente alla modernità, di cui anzi costituisce il vero beneficiario. Gli antisemiti ne denunciano l’autentico carattere, per così dire regressivo e cospirazionista, che avrebbe pervaso di sé gli ordinamenti borghesi. Un fatto per il quale chiedono una risposta di pari intensità ma di segno opposto, nel nome della presa di coscienza collettiva tra gli «ariani». Da ciò deriva, per Germinario, il carattere di elemento di aggregazione e mobilitazione «rivoluzionaria» svolto dall’antisemitismo contemporaneo, in competizione con il marxismo per il controllo del consenso nella vasta platea di proletari ma anche, a stretto seguito, dei ceti medi in via di formazione. Antisemitismo che si dota di una sua teoria, che è tutta dentro i percorsi di una lettura stravolta della modernizzazione affaticata. Da ciò, ad esempio, l’intenzione di volere combattere l’impersonalità dell’agire economico evocando costantemente il fantasma del parassitismo (quello della «finanza ebraica») che agirebbe contro il sano produttivismo industriale. Più che sul «socialismo degli imbecilli», formula tanto fortunata quanto facilmente liquidatoria, Germinario ci invita a riflettere piuttosto sulla prospettiva politica antisemita. Così afferma: «L’obiettivo politico dell’antisemitismo è dunque quello tipico delle rivoluzioni e dei movimenti totalitari del Novecento: a fronte di una società borghese e liberale, che ha ridotto l’uomo alla dimensione meramente economica, stabilendo il primato assoluto dell’economia su tutte le altre dimensioni umane, compresa quella attinente le relazioni interindividuali, tanto che a governare sono il mercato e i rapporti economici, si tratta di restituire alla politica il suo primato, utilizzandola per promuovere una nuova figura di uomo».
L’ebreo assume qua le vesti paradigmatiche della figura centrale nel processo capitalistico della circolazione, ossia della mobilità senza termine: circolazione di denaro, circolazione e consunzione di ogni valore, a partire da quelli morali, inflazione ed estinzione della tradizione. Poiché l’ebreo è doppiamente pericoloso in quanto agisce come razza organizzata in un’epoca in cui gli altri uomini, essendosi dissolto il legame sociale della tradizione, purtroppo possono agire solo come individui isolati. Alla conclusione di questa circuito c’è l’espropriazione, il fantasma ossessivamente evocato dagli antisemiti di ogni risma e che replica al discorso sull’alienazione fatto invece dai marxisti. In entrambi i casi si configura un uomo deprivato della sua essenza. Ma mentre nel secondo la denuncia rimanda alla natura del processo di produzione, e alla sua trasformabilità attraverso l’azione cosciente della collettività dei produttori, nel primo sopravanza l’istanza della depravazione morale, di cui la malvagità ebraica, in quanto nemico interno alle società contemporanee, sarebbe la figura centrale, il nero cuore pulsante, tolto il quale trionferebbe l’armonia sancita dalla proprietà privata.
Sovversione dei significati
L’autore si sofferma ripetutamente sull’antisemitismo come ideologia della sovversione dei significati. Da ciò deriva la sua potenza, anche se essa fatica poi a rigenerarsi in progetto politico compiuto. Laddove ciò è avvenuto, a partire dalla Germania nazista, le tensioni intellettuali si sono tradotte in un’apocalisse che è del tutto funzionale ad un pensiero che si alimenta di un’idea del progresso rovesciata, basata su un radicale pessimismo nei confronti del futuro. Poiché, «se per gli ebrei la Storia è storia della conquista del potere, per l’umanità essa è un progressivo incremento della sofferenza». D’altro canto, è risaputo che la funzione del cospirazionismo antisemita contemporaneo risponda soprattutto alla necessità di raccogliere, valorizzare e spendere politicamente il timore del tempo a venire, che caratterizza l’atteggiamento di settori consistenti delle collettività nei confronti della modernità. In particolare modo, soprattutto con la fine dell’Ottocento, tra quei ceti medi spiazzati dal mutamento, così come l’Affaire Dreyfus si era incaricato di dimostrare. Anche da ciò deriva quindi il carattere al medesimo tempo consolatorio e di «ricostruzione gnoseologica», ossia di attribuzione di significati (e colpe), per le difficoltà di un presente incomprensibile.
Francesco Germinario ci restituisce il livello della complessità politica che la sfida antisemita ha rappresentato come fatto storico ma anche come elemento delle dottrine politiche contemporanee, di cui non è una patologica versione ma una declinazione pseudocollettivista, che predica una sua idea di eguaglianza, non importa quanto falsa, una razionalizzazione della storia, una radicalizzazione dell’azione politica soprattutto laddove questa è soverchiata dall’economia. Tema più che mai attuale, a ben vedere.
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