Piano d’acciaio per l’Europa, obbiettivo 20% in mobilità

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BRUXELLES. Propaganda d’acciaio: perfino il «caso Ilva» fonde nella documentazione statistica dell’Unione europea. Fattura senza generare utili; inquina come troppe «fabbriche della morte»; è un affare di Stato come dimostra la magistratura nel giroconto miliardario.
La siderurgia come metafora dell’Italia post-industriale. La vera produzione è finalizzata e concentrata in due settori: automotive (che ruota non solo intorno alla «Fabbrica» di Marchionne) e costruzioni, cioè edilizia più le solite «grandi opere». E ora la Commissione europea deve varare il «piano acciaio»: in ritardo di due anni, servirà soprattutto a misurarsi con l’obbiettivo del 20% dei licenziamenti…
Aprile 2013. Statistiche ufficiali di Worldsteel.org con i 63 paesi produttori. Italia 2.115.000 tonnellate di crude steel prodotte rispetto a 2.392.000 di un anno prima, pari all’11,6% in meno. Secondi in Europa dietro la Germania con 3.564.000 tonnellate (solo meno 0,9% rispetto al 2012). La Cina è irraggiungibile con 65.650.000 tonnellate, in crescita del 6,8% annuo. Il mercato globale viaggia sempre fra Giappone (9,1 milioni), Usa (7,2 milioni), Russia e Ucraina (8,2 milioni). Ma bisogna anche fare i conti con India (6,6 milioni), Corea del Sud (5,4), Brasile (2,9) e Turchia (2,8).
Nelle 18 pagine dell’ultimo report datato 29 aprile e dedicato al secondo trimestre 2013, Eurofer’s Economic Committee che raggruppa i principali marchi delle acciaierie continentali conferma la reale destinazione d’uso anche della «produzione apparente». Il 35% approda al settore delle costruzioni, mentre il 18% serve all’automotive con il 14% ciascuno all’industria meccanica e ai metal goods e il 12% in tubi.
In Italia, la «radiografia» più aggiornata è offerta da Federacciai-Confindustria: in particolare, nella produzione di laminati a caldo il 13,1% è tondo in cemento armato, cui vanno aggiunti a beneficio di cantieri il 9,4% di lamiere da treno, il 4,4% di travi e rotaie e il 14,3% di Vergella. In buona sostanza, da Trieste a Piombino come da Bergamo a Terni l’acciaio made in Italy viene sfornato per l’edilizia o le mega-infrastrutture. Più che sulla manifattura sembra ritagliato sugli interessi dei poteri inossidabili. Una nicchia di mercato del «ciclo del mattone»? La piattaforma indispensabile ai grandi appalti?
Per tutti, l’appuntamento cruciale è cerchiato nell’agenda del settore. Martedì 11 giugno, Rue de la Loi a Bruxelles: il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha convocato il summit decisivo perché all’ordine del giorno c’è l’approvazione del «piano d’azione sull’industria dell’acciaio». Arriva con un calendario paralizzato dalle lobby, ma con l’Italia in prima fila nel difendere il futuro dell’Ilva senza più Riva.
Taranto è la punta dell’iceberg: aleggia un analogo spettro sulla Lucchini di Piombino, la Ferriera di Trieste e la Ast di Terni. Non basta essere il sesto paese al mondo nell’export, quando i numeri della recessione sono impietosi. Un bel rebus, al di là delle dichiarazioni ufficiali su ambiente&lavoro.
L’ambizioso piano originale di Antonio Tajani, vice presidente della Commissione con la delega all’industria, si rivela al ribasso: soldi, ma solo per gestire la «mobilità» del 20% dei lavoratori; niente uniformità di legislazioni nazionali, nessun controllo alle frontiere comunitarie; in sostanza, nessuna soddisfazione per le industrie in materia di tasse, energia e dumping.
Resta sul tavolo la partita su circa 170 miliardi di euro di fatturato dell’acciaio Ue, appesa alle elezioni tedesche. L’Italia si affida molto a Lia Sartori (Pdl), presidente della Commissione industria del Parlamento europeo: «La domanda di acciaio è al ribasso mentre i costi delle materie prime sono aumentati. Mantenere l’industria dell’acciaio dinamica e competitiva è essenziale per il futuro dell’Europa, dei 360 mila dipendenti e dei suoi cittadini. L’Ue è il secondo produttore mondiale di acciaio con 50 siti industriali in 23 stati membri. Il settore rappresenta l’1,4% del prodotto interno lordo».
Concretamente, a Bruxelles non è più tempo di sovvenzioni a fondo perduto che negli anni 80 garantivano il metallo invenduto. I governi direttamente coinvolti (a cominciare dal nostro) accarezzano un’altra alchimia procedurale: finanziare la «ristrutturazione» con i 2,5 miliardi di euro dei fondi ex Ceca. Di più: pagare gli esodati d’acciaio con il Fondo sociale europeo. Sono d’accordo anche i sindacati?


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