Libertà d’impresa e capitali esteri i dubbi degli imprenditori

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ROMA — Allarme rosso per il sistema industriale del Paese. Secondo gli imprenditori il decreto legge sul commissariamento dell’Ilva approvato ieri dal Consiglio dei ministri configura un esproprio che mette a rischio gli investimenti, in particolare dall’estero. Il provvedimento, sostiene Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, «mina la certezza del diritto», mettendo le fabbriche in balìa dei pubblici ministeri e «violando palesemente i diritti della libera impresa». Per questo la stessa associazione e Confindustria faranno pressing sul Parlamento per ottenere modifiche del decreto. Vediamo nel dettaglio le principali critiche degli imprenditori e le repliche del governo.
Un decreto generale anziché ad hoc
Le imprese lamentano il fatto che il decreto non riguardi solo l’Ilva, ma faccia riferimento a tutte le aziende di interesse strategico nazionale ai sensi della legge 231 del 2012. Ora, poiché questa legge si riferisce alle imprese con almeno 200 occupati, secondo gli imprenditori c’è il rischio che la procedura di commissariamento definita nel decreto sia potenzialmente applicabile a un numero grandissimo di aziende: acciaierie, cementifici, centrali elettriche, eccetera. Che bisogno c’era di andare oltre il caso Ilva? Ma i tecnici dell’esecutivo ribattono che si tratta di un timore infondato perché il decreto stabilisce debba trattarsi di aziende «la cui attività produttiva abbia comportato e comporti pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute» a causa della inosservanza delle norme «contestata dalle autorità competenti».
Basta un semplice pm
Ma è proprio su quest’ultimo punto che si concentra la seconda critica delle associazioni imprenditoriali, le quali lamentano che bastino gli atti di un pubblico ministero a spingere verso il commissariamento. Il tutto senza contraddittorio. L’azienda cioè non avrebbe la possibilità di difendersi rispetto alle iniziative dell’accusa. Bisogna distinguere, replicano i tecnici del governo, tra il procedimento penale, che ha i suoi tempi, purtroppo lunghi, e la necessità di intervenire con urgenza a tutela della salute. Inoltre, se si arriva al commissariamento, è perché c’è già stata una fase dove nel contraddittorio sono state contestate inadempienze e relative sanzioni. Resta il fatto che, alla fine, un margine di discrezionalità rimane, ma in capo al consiglio dei ministri.
Un esproprio
Sarebbe stato meglio, dicono gli imprenditori, nominare un commissario ad acta per l’adempimento dell’Aia, l’autorizzazione integrata ambientale, invece di un commissario che subentra per ben tre anni nella gestione dell’azienda e di fatto nella proprietà, configurando un vero e proprio esproprio. Non è così, ribatte il governo. L’esproprio, che pure è previsto dall’articolo 43 della Costituzione, non c’è in questo caso perché l’impresa viene restituita alla proprietà una volta risanata. Il decreto trova invece fondamento nell’articolo 41: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Inoltre, col commissario ad acta si sarebbe rischiata l’interruzione della produzione mentre la procedura prevista dal decreto consentirebbe lo sblocco dei beni sequestrati dalla magistratura nella misura in cui vengano destinati all’adempimento delle prescrizioni ambientali.
Si scoraggiano gli investimenti
Ma quale impresa, ribattono le associazioni imprenditoriali, verrà mai in Italia se rischia di finire commissariata per tre anni per il solo fatto di avere in corso un braccio di ferro con un pubblico ministero? Così si penalizzano le imprese. Il governo la vede diversamente. Il commissariamento, osserva, è una procedura a tutela dell’impresa proprio in quanto strategica: se fosse una azienda normale, poniamo una carrozzeria che avveleni il vicinato, verrebbe semplicemente chiusa. Quando invece c’è una produzione di interesse nazionale ecco che si fa di tutto per evitare la chiusura.
Norme più severe di quelle europee
Il decreto, lamentano le imprese, prevede che il commissario predisponga un piano ambientale, che poi viene sottoposto a una discussione pubblica, «si può immaginare con quali risultati». Questo piano sostituirebbe l’Aia, col probabile risultato di una discriminazione a danno delle imprese italiane. Il piano ambientale, dice invece il governo, è solo una procedura per adeguare rapidamente l’Aia ed evitare, di nuovo, la chiusura. Ma le associazioni non sono d’accordo: le norme italiane sono già penalizzanti perché impongono la valutazione del rischio sanitario che non c’è in quelle europee. Le norme Ue, replicano i tecnici governativi, definiscono solo standard minimi, gli ordinamenti nazionali possono migliorarli. E comunque nel caso Ilva sono le norme di base ad essere state violate.


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