Processo alla «talpa» di Wikileaks Il soldato Manning rischia 150 anni

by Sergio Segio | 4 Giugno 2013 4:42

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NEW YORK — «Non è solo un militare infedele che fa trapelare informazioni segrete: Bradley Manning è un soldato che ha sistematicamente trafugato e trasferito su Internet, e quindi nelle mani del nemico, centinaia di migliaia di documenti classificati, ben sapendo, sulla base dell’addestramento ricevuto, che, così facendo, stava mettendo in pericolo la vita di molti suoi commilitoni».
Dopo tre anni di detenzione in isolamento e in condizioni che per un lungo periodo sono state durissime — quasi da Guantanamo, con l’imputato perfino privato dei suoi vestiti — è iniziato ieri davanti alla Corte marziale di Fort Meade, in Maryland, il processo contro «private Manning»: il soldato semplice di prima classe che trafugò i 700 mila documenti segreti che furono messi in rete sul sito web Wikileaks di Julian Assange. E il copione di questo storico processo destinato a durare almeno dodici settimane (mai visto niente di simile nei tribunali militari Usa dai tempi del massacro di My Lai in Vietnam, 45 anni fa) è chiaro fin dalle prime battute: alle accuse del capitano Joe Morrow, l’avvocato della difesa, David Coombs, ha subito replicato che «Manning era giovane, naïf, pensava di fare del bene al mondo rivelando segreti imbarazzanti per gli Stati Uniti. E, comunque, cercò di provocare meno dati possibile, facendo uscire solo una minima parte dei milioni di documenti ai quali aveva accesso».
Un processo che ha provocato la mobilitazione della stampa e di molti attivisti che ieri erano davanti a Fort Meade a chiedere la liberazione del loro eroe. Un processo nel quale c’è ben poco da dimostrare sul piano dei fatti, visto che Manning ha ammesso le sue responsabilità: davanti alla Corte si gioca tutto sulla valutazione della gravità dei crimini commessi. L’imputato, nell’ammettere le sue colpe, aveva offerto di dichiararsi colpevole per i 10 capi d’imputazione meno gravi: sarebbe finito in galera per 15 o 20 anni al massimo. Ma per il governo americano, che proprio dal caso Wikileaks ha cominciato ad alzare la guardia sulla cosiddetta «minaccia interna» questo non era sufficiente: la pubblica accusa vuole la condanna per alto tradimento e l’ergastolo (per la precisione rischia oltre 150 anni).
Il caso, la più grande fuga di notizie segrete della storia, tre anni fa creò tempeste diplomatiche a raffica, ma mise a nudo anche gravi errori dei militari. Fecero scalpore i filmati di alcuni attacchi aerei che provocarono molti morti tra i civili in Iraq. Vennero fuori molti cablogrammi coi nomi delle persone che in Iraq e Afghanistan collaboravano con le forze americane. Fu pubblicato di tutto: dal presidente dello Yemen che aveva segretamente autorizzato gli attacchi degli aerei-robot della Cia sul suo territorio da lui ufficialmente condannati, ai giudizi critici su Silvio Berlusconi dati da vari esponenti italiani (compresi alcuni suoi collaboratori) e da diplomatici americani che, all’ambasciata Usa di Roma, credevano di parlare in assoluta riservatezza.
Fino a poco tempo fa, a parte un pugno di attivisti pacifisti, a sostenere l’innocenza di Manning erano veramente in pochi. Anche per questo, probabilmente, il governo Usa ha scelto la linea dura. Ma l’equiparazione fatta dall’accusa tra pubblicazione di informazione segrete su Internet e collaborazione col nemico ha assunto un sapore diverso e ben più allarmante per i giornalisti in queste ultime settimane, man mano che venivano fuori le storie delle indagini segrete ordinate dal ministro della giustizia Eric Holder nei confronti di alcuni dei principali media del Paese (dall’agenzia di stampa Associated Press alla rete televisiva Fox) accusati di aver pubblicato notizie che dovevano essere segrete e che hanno messo in pericolo soldati e agenti americani in varie parti del mondo.
Un caso che ha portato a una generale sollevazione della stampa che non ha contestato la possibile gravità di qualche fatto specifico, ma accusa il governo Obama di aver reagito in un modo eccessivo che compromette l’operatività di alcune delle più importanti organizzazioni giornalistiche del Paese e che può, in prospettiva limitare la libertà di stampa. Così, inaspettatamente, il processo al soldato Manning è diventato, almeno in parte, anche il terreno sul quale si gioca un pezzetto di una nuova e imprevista battaglia per la libertà di stampa.
Massimo Gaggi

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