Il Colle dà i tempi al governo «A termine, riforme in 18 mesi»

by Sergio Segio | 3 Giugno 2013 6:31

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ROMA — Presidente, tra vaghi auspici e concrete proposte, il tema di un’evoluzione in senso presidenziale delle riforme si sta imponendo nel dibattito politico. Nelle ultime ore ne hanno parlato, tra gli altri, il premier Enrico Letta e il segretario del Pdl Angelino Alfano. Lei che cosa ne pensa?
«Io naturalmente non dirò nulla, nè stasera nè mai, sul contenuto delle riforme: resterò assolutamente neutrale… Mi volete far dire qualcosa che non ho intenzione di dire. Questa questione è all’ordine del giorno della Commissione di membri della Camera e del Senato che si sta costituendo e che è deputata a entrare nel merito… sarà poi discussa nel Comitato di esperti. Soltanto allora si entrerà nel merito. E quanto ai pareri dell’uno o dell’altro, ognuno ha le sue convinzioni».
Sembra inutile incalzare Giorgio Napolitano sul nodo che tocca in modo diretto il suo ruolo. Evidentemente deve sembrargli improprio entrare nel problema mentre qualcuno (ad esempio il vicepresidente del Senato, ed esponente del Pdl, Maurizio Gasparri) parla di «neogollismo» già in atto in Italia e mentre altri suggeriscono di introdurre l’elezione diretta del capo dello Stato. In realtà, si sa che su questo genere di ipotesi ha parecchi dubbi e riserve. Che oggi non esprime per una sorta di «pudore istituzionale», chiamiamolo così. Ma un anno fa, quando non rischiava come adesso d’interferire con il lavoro di altri poteri visto che di tutto ciò almanaccavano in pochi, per lo più giuristi impegnati in analisi accademiche, aveva articolato con una certa ampiezza le ragioni della sua contrarietà a quello che deve sembrargli un rischioso salto nel buio.
Era il 30 maggio 2012 e, chiudendo un discorso davanti al consiglio comunale di Pordenone, s’inoltrò nel terreno delle modifiche all’architettura istituzionale: quelle che «si possono e, anzi, si debbono fare» — come prescrive l’articolo 138 — sulla seconda parte della nostra Costituzione.
Spiegò quel giorno: «Sì, si può benissimo discutere anche di come ripensare la figura del presidente della Repubblica. Io voglio solo dire che in questi sei anni ho rafforzato la mia convinzione che i nostri costituenti nel 1946-47, in quello straordinario sforzo di equilibrio, di unità, di sintesi e di lungimiranza, diedero una soluzione al problema del capo dello Stato profondamente motivata: avere al vertice dello Stato una figura neutra, politicamente imparziale, che restasse estranea al conflitto tra le forze politiche e tra le correnti ideologiche. Avere, cioè, un capo dello Stato che svolgesse funzioni di moderazione e garanzia in un atteggiamento di costante e assoluta imparzialità. Credo sia stata una scelta molto importante».
«La si vuole ridiscutere?», aveva aggiunto, con un interrogativo retorico, sul quale incombevano le sue eloquenti, per quanto inespresse, riserve. «Io sono spettatore di fronte ad una discussione che si apra anche su questo tema, ma bisogna ben vedere quali equilibri si creano in luogo di quelli che si superano e si accantonano».
Ecco il punto politico che induce Napolitano alla massima cautela: in che tipo di quadro istituzionale e in quale griglia di regole si pretenderebbe di attribuire prerogative diverse, e più penetranti, agli inquilini del Quirinale? Ricalibrando in che modo quel sistema di pesi e contrappesi sui quali si è retta finora la nostra democrazia parlamentare?
In assenza di risposte coerenti in cui tutto si tenga (risposte che possono venire solo dopo un serio approfondimento della commissione che sta per essere insediata) e di un’opzione politica la più larga e condivisa possibile, meglio il silenzio. Questo ha deciso ieri Napolitano, anche se è difficile che abbia mutato opinione rispetto a pochi mesi fa. Si è imposto prudenza, dunque. Anche per non favorire fibrillazioni ai primi passi di Letta a Palazzo Chigi, con un governo che — per l’anomalo tipo di alleanza dalla quale è sorretto — è difficile credere abbia dinanzi a sé l’orizzonte di un’intera legislatura.
«Ho apprezzato quel che hanno fatto i partiti. È stata una scelta che comporta dei sacrifici da parte delle singole forze politiche, una scelta eccezionale e senza dubbio a termine». Così riflette con i cronisti, dopo una lenta passeggiata attraverso i giardini del Quirinale affollati di famiglie in visita, che lo incalzano per qualche foto «posata» mentre le bande militari alternano l’inno di Mameli a colonne sonore di Morricone.
Alterna fiducia e preoccupazione, il presidente. Fiducia nelle risorse morali del Paese, «determinato a superare la crisi». Preoccupazione (e «vigilanza», aveva detto sabato) sull’autentica capacità dei partiti di stringere un accordo sulle riforme, riferendosi magari al dossier compilato dai «saggi», ammainando finalmente «le proprie bandiere e i propri modelli». In cima all’agenda di tutti — e sua — la correzione di una legge elettorale che sostituisca il devastante — ma per troppi forse ancora comodo — Porcellum. «Un nodo da cui bisogna uscire», puntualizza con tono ultimativo, specificando che «non sta scritto da nessuna parte che si debba tornare al proporzionale puro». Il 2 giugno del prossimo anno «si capirà» come si mettono le cose, anche se Letta ha indicato un più realistico orizzonte di 18 mesi, per fare le riforme: «Sì, un tempo più che appropriato, perché il processo è complesso e si tratta di tenere il ritmo». Occorre insomma quel grande sforzo di «revisione» della Carta che già Scalfaro, che pure era stato costituente, chiese «drasticamente nel 1992» e che fu però lasciato inevaso.

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