Violenza, diritti, lavoro La battaglia delle donne

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TORINO — Serpeggia un tema forte tra gli incontri del Salone del Libro che ieri ha imboccato la porta del weekend: giorni tradizionalmente votati a quel mix di cultura pop, bestseller, musica, grandi personaggi che allunga le code ai botteghini, intasa le uscite e solleva il morale del presidente Rolando Picchioni che parla di 20% in più di affluenza (e per l’anno prossimo annuncia un possibile sbarco, per la prima volta, della Buchmesse di Francoforte con una rappresentanza di editori tedeschi).
Ieri è stato il giorno di David Grossman e di Roberto Saviano che al mattino ha messo in fila i suoi fan a caccia di autografi e il pomeriggio ha bacchettato il governo, ma protagoniste sono state anche, un po’ di più rispetto ai due giorni precedenti, le donne. Con Lidia Ravera, Marilisa D’Amico, Loredana Lipperini e Rossella Palomba si sono declinati i temi del femminile affrontando i nodi ancora irrisolti della parità  e dell’occupazione, della maternità  e delle questioni sociali e politiche legate a essa, dall’aborto alla fecondazione assistita. Ma, nel chiasso della Fiera, si è parlato molto anche di violenza e, soprattutto, di femminicidio.
Lo hanno fatto scrittrici, giornaliste, attrici e, attraverso la sua opera, anche il grande nume tutelare di questo Salone che ha accolto il Cile come ospite d’onore, Roberto Bolaà±o. Parte del suo romanzo postumo 2666 (Adelphi) è ambientata nella città  messicana di Santa Teresa, che corrisponde a Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti, dove oltre un migliaio di donne sono state assassinate o fatte sparire nel nulla negli ultimi 30 anni. La quarta delle cinque sezioni che compongono l’opera e che probabilmente l’autore vedeva come una sequenza di romanzi separati, si intitola La parte dei delitti ed è una lunga ossessiva, insopportabile serie di ritrovamenti di corpi. Bolaà±o segue le tracce di Sergio Gonzales, un giornalista delle pagine culturali («recensiva libri di filosofia che peraltro nessuno leggeva, né i libri né le recensioni, e di tanto in tanto scriveva di musica e mostre di pittura», lo descrive Bolaà±o) che nel 1993 viene mandato a fare un reportage e comincia a seguire questi casi da cui nascerà  il libro Ossa nel deserto. È lì che nasce la parola femminicidio che in Italia è entrata nell’uso soltanto da poco tempo anche se, come suggeriscono le cronache, e — sottolinea la demografa Rossella Palomba, autrice del saggio Sognando parità  (Ponte alle Grazie) — «la prima causa di morte per le donne italiane tra i 16 e i 44 anni è l’omicidio da parte del coniuge, ex coniuge o ex fidanzato». Tutto ciò in un contesto di violenze che, scrive ancora la studiosa, è «molto esteso, anche se ancora sommerso e per questo sottostimato». Nel nostro Paese, secondo i dati Istat che Palomba riporta nel suo studio, oltre 14 milioni di donne hanno subito violenza fisica, sessuale o psicologica nel corso della loro vita.
Quello che è certo, e che si capisce anche dalla visibilità  che il Salone ha dato al tema, si sta prendendo coscienza dell’emergenza e si comincia a parlarne, pur in modi molto diversi tra loro, che vanno dalla militanza culturale, come hanno fatto Loredana Lipperini e Michela Murgia nel loro pamphlet L’ho uccisa perché l’amavo. Falso! (Laterza), alla cronaca (Questo non è amore, 20 racconti di botte, soprusi violenze, scritte dalle autrici del blog del «Corriere» La 27esima ora, edito da Marsilio) o passando per una forma di messa in scena lirica come ha fatto Serena Dandini con Ferite a morte (Rizzoli). Ieri il Salone ha rappresentato i diversi approcci e la Sala Gialla, mettendo a confronto il libro di Lipperini e quello della 27esima ora ha riempito quasi tutti i 5oo posti a sedere, come di solito succede con gli autori più seguiti.
Se il lavoro della 27esima ora nasce, come ha spiegato il vicedirettore del «Corriere» Barbara Stefanelli, «da un’inchiesta giornalistica sulla violenza alle donne e fa parlare poliziotti, magistrati, operatori, volontari e, soprattutto, donne che si salvano», Lipperini e Murgia partono da un problema di parole, perché «se non si cambiano le parole non si cambiano le persone».
«Quando qualcuno dice che il femminicidio non esiste perché i morti donna non sono più morti degli altri — dice Murgia — credo che si tratti di malafede. In realtà  il termine non riguarda qualunque donna morta, ma soltanto quelle uccise da uomini che ne rivendicano il possesso. Le ragioni sono diverse e il femminicidio chiede l’analisi delle ragioni. Un problema che non può essere ridotto a un fatto di costume e va affrontato culturalmente. Nei nostri linguaggi la facilità  di accostamento tra amore e morte è impressionante. Non si può scrivere in un titolo di giornale: “L’ho uccisa perché l’amavo”. Che la morte sia una delle possibili conseguenze di un amore deragliato non è accettabile».
«Si comincia a parlarne in modo sistematico e serio — dice Serena Dandini — e questo è un grande passo. Il sito di Ferite a morte ha creato un forte movimento di opinione, tanto che sembra che il Parlamento si appresti a discutere di questo appello che abbiamo lanciato a convocare gli Stati generali contro la violenza». Il libro di Dandini è un modo ancora diverso di affrontare il tema del femminicidio: nasce in contemporanea alla lettura teatrale, in ogni tappa donne diverse, note al pubblico (al Salone, per esempio, c’erano, tra le altre, Daria Bignardi, Lella Costa, Chiara Gamberale, Germana Pasquero, Concita De Gregorio) vengono convocate sul palcoscenico a leggere una delle storie vere raccolte nel libro. Le vittime parlano in prima persona, a volte con ironia. Anche quello si può fare, dice Lella Costa, «con garbo, pertinenza, delicatezza, anche se i temi sono drammatici».


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