Viaggio con i samaritani che salvano i migranti nel deserto dell’Arizona

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TUCSON (Arizona) — L’uomo che dirà  di chiamarsi Efrain spunta in una curva di una pista sterrata. Si tira dietro uno zaino. È stremato, i suoi occhi tradiscono paura. Si è perso nel deserto dell’Arizona, a nord del confine con il Messico, vicino alla Cisterna del Lupo. Era probabilmente con un altro gruppo di immigrati clandestini ed è rimasto indietro. Il «coyote», il trafficante che fa da guida agli illegali in una terra insidiosa, non aspetta. Tira dritto. Chi non tiene il passo muore di stenti o deve sperare in un angelo custode.
Quello di Efrain ha le sembianze di due «Samaritani». Ed, una vita passata in Marina, esperto di radar. Peter, ex dirigente di una banca. Da quando sono pensione aiutano i disperati che si dirigono verso nord in cerca di speranza e lavoro. I Samaritani lasciano l’acqua lungo alcuni percorsi che un altro volontario ha ricostruito con anni di ricerche. Per ore ho seguito la missione caritatevole di Ed e Peter, a bordo di un vecchio fuoristrada pieno di giare di plastica. Un lungo giro in un’area dove non vedi nessuno, ma «loro» ti vedono. Sulle alture ci sono le vedette dei contrabbandieri, i migranti e chi cerca di prenderli, gli agenti della Border Patrol. Efrain ci ha seguito con lo sguardo da un piccolo canyon, poi ha trovato il coraggio di fermarci. I Samaritani gli danno da bere, poi cibo. Ingolla l’acqua senza soste. Ed gli tocca la fronte. Il gesto non di un medico ma di un padre: «Scotta», dice. Gli chiediamo da dove arrivi. Lui: «Da Nogales», indicando la prima città  messicana sulla frontiera. Una bugia. Le sue origini sono più lontane, probabilmente da un paese centroamericano. Afferma di essere single e di avere 38 anni. Gli chiediamo se è solo. Risponde di sì con la testa. Poco distante su una collina volteggiano degli avvoltoi. Brutto segno. Potrebbe esserci un cadavere. Saliamo il fianco con Peter, ispezioniamo l’erba alta che cela sassi e rovi. Nulla. Torniamo indietro. Ora per Efrain è il momento della scelta. Deve decidere: consegnarsi alle autorità  o proseguire da solo verso «El Norte». I Samaritani possono dargli un passaggio solo nel primo caso, tutto il resto sarebbe fuori della legge. Efrain, che pur ha dovuto pagare al «coyote» oltre 2 mila dollari raccolti chissà  come, risponde: «La migra». Vuole che lo portiamo alla polizia di frontiera. L’alternativa è il cammino del Diavolo. Sfidare il deserto, rovente di giorno, gelido di notte. Poi burroni, cactus che trafiggono come pugnali, serpenti a sonagli, la sete. E se gli va male può imbattersi nei «bajadores», banditi della frontiera.
Efrain sale sulla jeep, continua a osservarci mentre tiene d’occhio la strada. Non si sente ancora al sicuro. Per lui tutto questo è l’ignoto. Regge per un po’ poi crolla in un sonno profondo che neppure i salti del fuoristrada interrompono. Un’ora dopo siamo ad un posto di blocco della Border Patrol. Lo prendono in consegna, sarà  deportato in Messico. Efrain torna alla casella uno della sua odissea. Ci riproverà , perché è ancora vivo. Con l’esperienza di aver visto cosa c’è oltre il muro. Altri migranti non lo hanno potuto raccontare.
Il deserto dell’Arizona è punteggiato di loro resti. Dal 2001 sono morti a migliaia, uccisi dall’ipotermia e dalla fatica. Molti semplicemente svaniti. Di altri è rimasto appena un osso o abiti che il tempo ha ridotto a stracci. Reperti sui quali indagano in modo instancabile all’ufficio di medicina legale della Contea di Pima. In una palazzina bassa incontriamo Greg Hess, uno degli investigatori. Insieme ai suoi colleghi prova a scovare l’identità  degli sconosciuti. Usano il Dna, incrociano le segnalazioni degli scomparsi ricevute dai consolati e da associazioni umanitarie, fanno indagini alla Csi su quegli oggetti. Un tatuaggio, un segno particolare possono essere un primo indizio. Poi ci sono i vestiti. L’etichette dei jeans custodiscono spesso dei segreti: è qui che i migranti celano il numero di telefono del loro contatto. L’interno della cintura è l’altro nascondiglio. Oppure hanno una tasca minuscola cucita nelle mutande. Non è solo un lavoro, ma una missione. Che coinvolge un team di specialisti. Al loro fianco gli attivisti di «Humane Borders». Insieme hanno creato un database dove sono censiti, con dati e coordinate, centinaia di casi irrisolti. Negli archivi una montagna di reperti. Foto di famiglie, fazzoletti ricamati, lettere accorate inviate a madre e figli. Storie dove c’è un corpo (o quasi), degli effetti personali, ma manca il nome. Punti rossi su una mappa digitale che talvolta sono sostituiti sul terreno da croci bianche. Fabbricate con il legno, le piantano dove hanno trovato le ossa. Luoghi selvaggi ai quali si arriva seguendo sentieri marcati da zaini e abiti abbandonati dagli immigrati. Laurie Jurs, altro cuore grande, ogni tanto porta un fiore. Lo ha rifatto insieme a noi guidandoci fino ad un angolo dove qualcuno si è lasciato cadere al suolo e non si è più rialzato. Di lui resta solo un ricordo e la scritta «desconocido».


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