Usa -Cina, il supervertice

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PECHINO. È il vertice politico dell’anno, si svolgerà  in maniche di camicia e nessuno dei due protagonisti può permettersi di sbagliarlo. Barack Obama e Xi Jinping si incontreranno in California il 7 e l’8 giugno, il loro obiettivo è «costruire fiducia» tra i due leader più influenti del presente, ma questa volta anche il resto del mondo spera che tra Cina e Usa gli interessi comuni prevalgano sulle divergenze. Pechino è decisa a stabilire «un nuovo tipo di rapporto tra super-potenze» e a frenare il riorientamento americano nel Pacifico. Washington vuole rallentare la fine della propria egemonia sul mondo unipolare, uscito dalla Guerra Fredda, e capire che cosa comporti la realizzazione del «sogno cinese» lanciato dal successore di Hu Jintao. Da un’intesa su questi punti dipende la rinascita del G2, entrato in coma con la crisi finanziaria del 2009, e dunque anche il destino del più allargato G20.
Al faccia a faccia nella tenuta di Sunnylands è appesa però anche la sorte personale di Obama e di Xi. È il loro primo incontro ufficiale, dopo l’ascesa al potere del nuovo segretario generale del partito comunista cinese e dopo la rielezione del presidente democratico americano. Un appuntamento cruciale, al punto che l’agenda stilata ad inizio anno è stata stravolta. Obama e Xi avrebbero dovuto inaugurare i loro caminetti solo in autunno, al G20 di San Pietroburgo. La storia però, come il web e gli indici di Borsa, marcia oggi troppo rapida per aspettare le prefissate occasioni diplomatiche. Complici le presidenziali Usa e la preparazione del Congresso cinese, è quasi un anno e mezzo che i vertici delle prime due potenze globali non si confrontano e accumulano incomprensioni. I decisori del pianeta, spinti anche da alleati sempre più in apprensione, hanno così scelto di anticipare un confronto che altrimenti avrebbe dovuto rincorrere le crisi, con l’incubo della recessione. La posta in gioco è talmente alta che mai, se pure senza cravatta, un vertice è stato preparato con tanta maniacale attenzione.
Il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Tom Donilon, nei giorni scorsi è volato a Pechino per in-
contrare sia Xi Jinping che il capo della politica estera cinese, Yang Jiechi. Da due settimane, informalmente, i più alti diplomatici cinesi sono al lavoro a Washington. «Costruire fiducia» tra Obama e Xi, passa anche attraverso un accordo sui toni e sul linguaggio da utilizzare in pubblico. L’incontro è stato chiesto dagli Usa e non solo per l’etichetta che consiglia ad un presidente al secondo mandato di invitare a pranzo quello esordiente. A Pechino trapela
infatti che gli Stati Uniti sono preoccupati e non vogliono lasciarsi scappare l’occasione per stabilire un’intesa privilegiata con la leadership che governerà  la Cina per il prossimo decennio, probabilmente consumando lo storico sorpasso sull’economia americana.
Obama non è andato oltre la cortesia formale con Hu Jintao, giudicato troppo freddo ed enigmatico. Punta dunque tutto su Xi Jinping, il leader più “americano” che la Cina abbia mai avuto. Xi ha visitato gli Usa da governatore regionale, è innamorato del basket e di Hollywood, ha mandato la figlia a studiare negli States e ha voluto imprimere sulla sua era l’immagine kennedyana del «grande sogno» della nazione. Si è spinto fino a imporre al partito l’idea di ridotarsi di una first lady, tabù ultra-trentennale dopo la condanna a morte dell’ultima moglie di Mao. Oltre al confronto Obama-Xi, ai primi di giugno andrà  in onda così anche il duello tra Michelle Obama e Peng Liyuan, le due nuove star del soft-power ai tempi del web. Michelle domina da tempo le prime pagine, mentre la signora Xi, stella del pop patriottico e generale dell’Armata di liberazione nazionale, sta scalando le classifiche della popolarità . Le due first ladies non si conoscono: entrambe sono però personaggi del jet-set, in patria sono quasi più amate dei consorti e dalla chimica che potrà 
stabilirsi tra loro dipende in parte anche il feeling tra i mariti.
Il fatto che il vertice si svolga in California non significa però che si risolverà  solo in un evento spettacolare. Tra Cina e Usa il tavolo dei problemi è ingombro di dossier e Xi Jinping non ha nascosto che le relazioni «si trovano in un momento cruciale». Tom Donilon, lasciando la Grande Sala del Popolo, ha tradotto così: «Dobbiamo imparare a gestire le differenze e le divergenze che possono sorgere tra noi». La parola d’ordine dei thinkthank è «convivenza obbligata» ed è dunque preferibile tentare di non trascorrerla da separati in casa. I consiglieri presidenziali dei due leader rivelano che Obama e Xi hanno concordato di mettere le carte in tavola, per evitare il rischio di essere logorati dall’incertezza. Assente l’Europa, si annuncia così l’inizio di un lungo confronto, dal cui esito il mondo è destinato ad uscire cambiato. La priorità  va oggi alle crisi più acute: Siria, Iran, Corea del Nord, Afghanistan. Non rompere su questi fronti caldi, evitando di mettere fuori gioco G20 e Onu, permetterà  di proseguire il dialogo sui, più decisivi, fronti freddi. Obama è preoccupato dall’espansione cinese nel resto dell’Asia, dalla corsa al riarmo di Pechino e dalla sua nuova colonizzazione dell’Africa. La Cina è accusata di accaparrarsi energia e materie prime, di invadere i mercati con prodotti a basso costo, di mantenere sottovalutato lo yuan, di distruggere i posti di lavoro in Occidente, di stabilire dazi sulle merci straniere, di sovvenzionare occultamente le proprie imprese e di impossessarsi di brevetti e segreti militari americani scatenando gli hacker di Stato. Xi Jinping risponde accusando gli Usa di dumping e di neo-protezionismo, oltre che di «cercare di sopravvivere mettendosi alla testa di una coalizione impegnata nel contenimento dell’ascesa cinese». Pechino vede con particolare sospetto il riorientamento nel Pacifico della forza militare statunitense, che dall’Europa sta spostando basi, armi e scudi nel cuore dell’Asia.
Due i temi strategici concordati per il vertice di giugno: la volontà  cinese di fermare la corsa atomica della Corea del Nord e le prospettive dello scontro che impegna Pechino contro Tokyo per il controllo dell’arcipelago conteso delle Diaoyu-Senkaku. Sia Obama che Xi sono decisi a chiudere il week-end con la risposta alla domanda cruciale: esiste il rischio che la controparte ricorra alle armi in caso di fallimento dei negoziati? Qual è l’invalicabile limite di ognuno? Gli entourage presidenziali assicurano che Obama e Xi Jinping hanno infine concordato il vertice perché sicuri di «poter dichiarare la pace». Le convergenze, almeno pubblicamente, saranno fatte prevalere sul dissenso. Non si calcheranno i toni sul rispetto dei diritti umani in Cina, come sulla chiusura di Guantanamo da parte degli Usa. L’obbiettivo epocale dei due leader è «delineare un nuovo tipo di rapporto tra grandi potenze», capace di «determinare la storia del secolo». Per gli Stati Uniti resta il problema di fare spazio alla Cina, per questa di trovare un modo accettabile per prenderselo. In California le due coppie più amate dai media si lasceranno tra i sorrisi: ma non è affatto detto che nei prossimi mesi, a telecamere spente, continueranno a sorridersi.


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