Una pace vista dal basso
PARIGI. Il forum organizzato a Parigi il 25 maggio 2013 dalla Maison de l’Afrique/Irea ha riunito 180 membri della società civile, studiosi ed esponenti politici per analizzare come evolve il Mali, in vista delle elezioni presidenziali del 28 luglio.
Un dato s’impone: l’apparato statale non costituisce la leva per risolvere la crisi, bensì il «problema» da superare. Vari fattori lo spiegano, fra questi: la corruzione, il decentramento amministrativo non completato, l’impoverirsi delle campagne e l’incapacità di rispondere alle attese di autonomia del Nord.
Nell’Azawad, ribellioni si sono succedute da tempo, attestando la perdita della sovranità dello stato. Tre quarti degli aiuti allo sviluppo si sono persi nei meandri della burocrazia e in mazzette. Altro fattore di delegittimazione istituzionale è poi la gestione dell’esercito, mal equipaggiato e con comandanti promossi con criteri nepotistici. Il quadro internazionale non ha migliorato le cose, per le conseguenze del conflitto libico, col rientro dei miliziani assoldati da Gheddafi.
Se la società civile, attraverso le associazioni di base, si esprime liberamente, la sua voce non è ascoltata e non si attua quanto chiede. Va denunciato dunque il declino di una società ridotta alla mera sussistenza, non integrata nella macchina statale.
A 4 mesi dall’intervento militare di Parigi richiesto dal presidente ad interim Diacounda Traoré (nella foto) per fermare i gruppi jihadisti (Mujao, Aqmi, Ansar Din), la questione prioritaria è la ricostruzione dello stato. Questa passerà di necessità per la stipula di un contratto sociale in grado di ricomporre il tessuto collettivo, di riconciliare il paese coi suoi governanti e di placare gli animi, superando le divisioni esacerbate dalla secessione nel Nord.
Ciò condurrebbe a una pace che “piacerebbe” al popolo, elaborata dal basso, sia attraverso le ong femminili, religiose o socioculturali, sia attraverso gli organi della decentralizzazione. La politica non verrebbe più considerata un modo per mettere la mano nel pentolone, al fine di ridistribuirne il contenuto al proprio entourage, ma si prospetterebbe come un servizio alla nazione. Le decisioni non sarebbero più demandate a Bamako, ma assunte sul posto, con amministratori tenuti a giustificare il loro operato.
Di tali temi tratta in modo marginale il Plan de Relance concepito dalla Ue per soccorrere il Mali: un semplice riepilogo d’intenti ereditati dai programmi di aggiustamento strutturale. Rispetto ai 2 miliardi di euro chiesti, ne sono stati promessi 3, ma quanti saranno poi versati dai donatori, una volta decurtate le somme già investite in progetti di sviluppo ed esclusi i costi militari? Mancano i piani atti a sollevare la gente nel quotidiano e ad arginare le ineguaglianze. Il rischio è che, quando i rubinetti degli aiuti si apriranno, il denaro si disperda su un terreno non seminato a dovere.
Sarà infine complicato affrontare la pacificazione, risarcendo le vittime degli estremisti islamici, ma senza provocare cacce alle streghe, con sospetti che ricadrebbero sui tuareg, accusati di tradimento. La gestione della giustizia (come quella della polizia) si profila perciò essenziale nella rinascita: un’altra sfida da raccogliere con mezzi insufficienti (da 15 anni, nella città settentrionale di Kidal, non risiede alcun giudice).
Quanto appaiono premature le elezioni di luglio e quanti interrogativi pone la loro messa in opera, specie nell’Azawad, oggi sotto un controllo tripartito fra esercito maliano, contingenti stranieri e truppe dell’ex movimento indipendentista tuareg (i nemici di ieri).
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